A questa domanda quarant’anni dopo abbiamo provato a trovare una risposta. Uso i termini storici che incidono sulla civiltà umana sapendo di far volutamente una forzatura, ma la metafora per eccesso ci permette di osservare forse con maggiore oggettività la querelle tra modernisti e tradizionalisti che ha segnato la storia recente della terra di Langa. Mi permetto di precisare che non siamo alla ricerca di vincitori e vinti e, spoilerando, la chiusura di questo articolo forse la vera vittoria è spesso l’arte del compromesso, che non rappresenta una diminutio, anzi, è la vittoria del relativo sull’assoluto. Succede, infatti, a distanza di anni che due posizioni distinte come rette parallele, apparentemente inconciliabili, superati i fondamentalismi, trovino dei punti comuni, migliorandosi vicendevolmente.
Un po’ di voci a ruota libera
Per farci un’idea abbiamo deciso di ascoltare i produttori, per questo primo appuntamento siamo partiti volutamente dai protagonisti di una storia di Langa recente, in parte figli di quel periodo che ha segnato una pagina importante di questo racconto, ma non parte in causa diretta di quella storia che per alcuni anni ha visto gli schieramenti “parteggiare”.
Ed è così che abbiamo incontrato i Fratelli Negretti, Ezio e Massimo. La loro storia comincia nel 2003 a La Morra prendendo le redini di un’azienda familiare che ha sempre avuto a che fare con il vino, ma che per la prima volta 21 anni fa hanno deciso di fare il grande passo, imbottigliare con il loro nome.
Appena un anno dopo comincia anche un’altra storia, Enzo Rapalino, giovane enotecnico a Treiso genera un’azienda di famiglia che oggi conta 22 ettari. È stata poi la volta di Walter Lodali, sempre a Treiso; qui Walter, terza generazione, è alla guida di un’azienda che vede la sua nascita nel 1939.
L’ultimo appuntamento ci ha portato a incontrare Cecilia Monte che, dopo un’esperienza presso la cantina di uno dei grandi protagonisti della storia dei Barolo Boys, ha deciso di dare vita e corpo a una sua realtà vinicola che oggi conta 13 ettari tra Neive, Monforte e la zona del Tortonese. Abbiamo poi ascoltato una figura importante per il settore vino, un ristoratore che ha fatto e ancora fa la storia culinaria di Langa e che porta avanti una bellissima eredità di arte del fare buono e genuino con genio, Filippo Giaccone con la sua trattoria in Albaretto della Torre.
La storia di una civiltà è la sommatoria di una serie di accadimenti che ne determinano il percorso. In tal senso il confronto tra modernisti e tradizionalisti nasce come ricordato da tutti gli intervistati come una risposta alla crisi che viveva il territorio di Langa, con i prezzi dell’uva che segnavano dati sconfortanti. Prende vita così da uno scatto di orgoglio il tentativo da parte di alcuni di creare un nuovo racconto di vino capace di competere nel mercato internazionale. Il riferimento è la Francia e in parte la Toscana, il cavallo di Troia è la barrique. “La mia opinione è che dobbiamo ringraziare questo movimento perché ha portato dell’aria fresca nelle Langhe e se oggi le Langhe sono in voga è anche grazie a questi produttori che ci hanno creduto” afferma Walter Lodali. Ai Barolo Boys quindi il merito di aver con coraggio dato “una bella svegliata”, citando i fratelli Negretti.
Ai tradizionalisti il riconoscimento di aver saputo però conservare l’identità del territorio, di custodire pratiche che oggi rappresentano un patrimonio importante di tutti.
L’uso del legno. Quale legno?
Uno dei temi del contendere di quegli anni era l’utilizzo del legno: i tradizionalisti difendevano a spada tratta la botte grande, che aveva il valore importante di conservare il vino nella sua evoluzione temporale senza inciderne sulla grammatica. I modernisti sposarono la barrique, a volte estremizzando. “Partecipavo sul finire degli anni ‘90 a degustazioni in cui il focus era capire che tipologia e che brand di barrique aveva usato il produttore. Il vino passava in secondo piano e questa cosa mi ha sempre dato un enorme fastidio” ci racconta Enzo Rapalino. Poi però come detto i fondamentalismi con l’esperienza mitigano le proprie derive.
“Oggi credo le cose siano molto cambiate, stiamo prendendo consapevolezza di quella che è la potenzialità del Nebbiolo, abbiamo un po’ perso quegli schematismi” conferma Cecilia Monte. Ecco che allora sul legno per molti si è tornati a più mite consiglio: alcuni hanno ripreso le botti grandi, altri, a seconda del cru di origine, hanno utilizzato anche legni piccoli, ma senza che questi interferiscano nel racconto autentico del territorio. In questo i fratelli Negretti sono un po’ l’emblema del superamento dell’ostracismo: “il concetto è di adattare il legno alla singola vigna e, di conseguenza, saper bene come funzionano le caratteristiche del legno e soprattutto conoscere bene la materia prima che si ha in mano”.
Poi invece c’è chi, come Walter Lodali ed Enzo Rapalino, che – dopo aver provato entrambe le strade – ha optato per concedere al Nebbiolo la conservazione gentile in botte grande. Quello che però tutti confermano è che di quell’esperienza ancora oggi è rimasta la voglia di sperimentare. Complice di questa “trasformazione” il cambiamento del gusto che, sempre più consapevole, va alla ricerca di narrazioni autentiche di territorio, scovando identità e peculiarità che – pensandoci bene – rappresentano proprio la forza di quel racconto di Langa che nelle Menzioni Geografiche Aggiuntive trova la sua esaltazione.
C’è poi il tema della bevibilità
Ce ne racconta Filippo Giaccone: “negli anni ‘80 i modernisti sono stati in vantaggio perché hanno capito il gusto del palato americano: un vino pronto subito, si dice “stappa e bevi” dove la bottiglia, aperta, la consumavano subito. A svantaggio del produttore tradizionale le cui bottiglie, aperte, dovevano riposare. Infatti, io avevo alcuni personaggi famosi, che si intendevano di vino, e mi chiamavano e mi dicevano – so che hai ancora due bottiglie di vecchia annata mettile in caraffa che stasera veniamo a berle –. Quindi erano pronti, però ci andava il tempo: quello che oggi si fatica ad avere”.
Ma è su questa questione che per tradizionalisti, modernisti e nuove generazioni è venuta in soccorso la tecnica. In tal senso, la gestione del vigneto e la cura in cantina oggi creano nuove opportunità. A pagarne la longevità? Ai posteri l’ardua sentenza. A proposito di vigneto è sulla gestione della vigna che i modernisti hanno contribuito a portare cambiamenti importanti: il diradamento è oggi pratica comune come i sesti di impianto più stretti e ravvicinati. Tecniche che negli anni hanno contribuito ad apportare un miglioramento qualitativo dell’uva. Mi fa sorridere in tal senso un racconto comune dello sconcerto iniziale di allora per queste nuove pratiche; gli do voce con le parole di Massimo Negretti “Ricordo ancora il primo diradamento che ho fatto, non avevo avuto il tempo di tornare che il vicino aveva già telefonato a mio padre per chiedere se i figli fossero diventati matti”.
In conclusione?
Tante sono le cose da dire ancora, ma lo spazio per quest’articolo è ormai finito. Provo a rispondere alla domanda iniziale: “Fu ribellione o rivoluzione?” Credo che si trattò di una ribellione che seppe però contribuire a quella rivoluzione consapevole che oggi ci consegna un racconto in bottiglia autentico, identitario che è un elemento distintivo importante nel mondo. Oggi il Barolo e il Barbaresco sono riconoscibili ed è questa la loro forza. Vi lascio con le parole di Filippo Giaccone, che, chi lo conosce lo sa, è un appassionato di musica; gli ho chiesto alla fine dell’intervista chi tra tradizionalisti e modernisti abbia conquistato negli anni la “patente rock” e mi ha risposto così: “Da amante di Vasco Rossi, darei la patente del rock ai tradizionalisti che vanno un po’ sul moderno, senza esagerare. Vasco ha fatto così, è partito da un rock veramente rockettaro, grezzo, chiamiamolo montanaro, per arrivare a un rock sempre rock, ma con dei suoni più morbidi e differenti dal normale”.
Buon ascolto in bottiglia.