Ci sono storie nell’universo umano che iniziano in un modo e poi assumono altre sembianze, di importanza e valore anche maggiori. È ciò che è capitato al Barolo, che da “vino dei re”, più sognato che consumato, è divenuto, in un cammino di tanti decenni, “vino del mondo”, ovvero amato e desiderato in tutto il pianeta.
Se confrontato con i tanti colossi che popolano l’universo enoico, il Barolo è una piccola realtà. Innanzitutto, Barolo è il nome di un minuscolo paese, poche file di case a coronare i fianchi di quelle colline allungate che, partendo da altitudini maggiori, degradano ai piedi del maestoso castello. Barolo poi è il nome del vino che questo paese condivide da tempo con il contado circostante, altri dieci comuni, altre realtà, altra gente.
Siamo a pochi chilometri da Alba, in direzione sud-ovest. Il Barolo, nasce qui non per caso. È il frutto della felice combinazione tra un suolo fatto in prevalenza di calcare, limo e argilla e qualche volta anche sabbia e il vitigno Nebbiolo, aristocratico e prezioso; al di sopra vi è un cielo che ogni anno regala un clima originale e differente, di pioggia e di neve, di sole e di nebbia, di vento e di brina, di frescura e rugiada mattutina. Infine, in questo meccanismo produttivo interviene l’uomo, colui che sa elaborare il valore dei caratteri naturali e indirizzarli in una produzione vitivinicola irripetibile.
Se vogliamo, Barolo è anche uno stile che racconta un vino prestigioso nell’origine e accattivante nei caratteri organolettici, che sa di grandezza, aristocrazia, potenza e ampiezza, di capacità di resistere al tempo e di raffinata propensione alla tavola.
Un po’ di passato, per capire il presente
C’è una storia del Barolo molto conosciuta, ma ci sono tratti del suo cammino che hanno avuto poca notorietà. La storia è così. È fatta di azioni e ripensamenti, di fughe in avanti e attimi di riflessione. Perché la storia di un vino – come quella di un cibo – è fatta di intuizioni, di progetti, a volte razionali, altre volte estemporanei; è fatta di tempo che passa e di impegno, a volte illuminato, altre volte solo astuto, di donne e uomini che nelle epoche passate hanno lavorato e immaginato il futuro, lottato e meditato, perseverato o sono ripartiti da capo.
Ci sono casi emblematici come quello di Juliette Victurine Colbert di Maulevrier, amorevolmente chiamata “Giulia di Barolo”, andata in sposa a Parigi nel 1807 a Carlo Tancredi Falletti, figura essenziale nel casato dei Falletti fino a essere sindaco di Torino tra il 1825 e il 1829. L’arrivo a Barolo di Giulia Colbert a inizio Ottocento ha favorito il lavoro per produrre il Nebbiolo locale come vino secco, “alla moda dei vini di Bordeaux”.
A lungo si è favoleggiato sul fatto che la Colbert avesse coinvolto in questo progetto il conte Luis Oudart e che fosse stato costui a favorire la produzione di un Barolo con la completa trasformazione dello zucchero in alcool.
La passiva ripetizione nel tempo di queste notizie finì per avvalorare la convinzione che Louis Oudart fosse davvero un eminente studioso sui temi della vite e del vino, fino a convincere che il suo lavoro sull’evoluzione del Barolo fosse stato determinante.
Approfondimenti più recenti come la ricerca di Anna Riccardi Candiani confluita nel libro “Luis Oudard e i vini nobili del Piemonte” (Slow Food Editore, 2011) hanno riportato nei giusti àmbiti il contributo di questo “tecnico”, ponendone in rilievo soprattutto le doti commerciali, magari con utili basi tecniche, ma senza confermargli quel ruolo tecnologico che per decenni gli era stato attribuito.
Piuttosto, in questa fondamentale opera di evoluzione del Barolo va riconosciuto un ruolo determinante a Francesco Staglieno, generale di Re Carlo Alberto e amico personale di Camillo Benso di Cavour. Sono state fondamentali le sue verifiche nella vinificazione delle uve Nebbiolo condotte al Castello di Verduno, quando il maniero e i suoi poderi erano stati acquisiti dal re dopo che aveva scoperto la grandezza di questo vino.
Va detto che il casato dei Falletti aveva avuto un ruolo fondamentale nell’evoluzione del Barolo ancor prima che arrivasse Giulia Colbert di Maulevrier. A testimonianza della speciale attenzione dei Falletti verso il paese di Barolo possiamo ricordare il cosiddetto “Consegnamento feudale”, documento redatto dal Delegato Patrimoniale Borgogno tra il 1662 e il 1670.
Nel documento viene ribadita la titolarità dei Falletti sul Castello di Barolo e quello della Volta e sottolineato il possesso di alcuni beni feudali quali il “pedaggio, il forno e l’hosteria”, oltre a menzionare la presenza nel paese di Barolo di uno spazio adibito a cantina, con la presenza di torchi e contenitori per il vino.
Ci sono stati episodi nella vicenda del Barolo nei quali la storia e la leggenda si sono intrecciati. È il caso, noto a molti, del 1835, quando “Giulia di Barolo” si convinse a raccontare di questo vino a Re Carlo Alberto. Il re si rivelò curioso e interessato a degustare questo prodotto della vigna. Anzi, apparve anche un po’ indispettito quando le disse: “Marchesa, voi mi avete parlato più volte di questo sublime nettare, ma per ora non ho avuto l’onore di assaggiarlo…”. Al che la Marchesa decise di stupire il re: fece allestire una carovana di carri e di botti e si avviò verso Torino. Su ogni carro c’era un lungo recipiente da trasporto del vino (una “carrà”) di 7 ettolitri pieno di Barolo proveniente da una delle cascine di Casa Falletti. La leggenda vuole che in tutto fossero 325 carri. Un’enormità! Uno al giorno per tutto l’anno, con l’esclusione dei quaranta giorni di quaresima.
La carovana procedette spedita come si poteva sulle strade di allora e, all’ingresso in città, paralizzò la capitale subalpina: quando il primo carro arrivò davanti a Palazzo Reale, l’ultimo era ancora all’ingresso di Torino.
Un gesto così eclatante e generoso della Marchesa Falletti fece breccia in Carlo Alberto: dopo aver provato più e più volte quel vino, il Re se ne appassionò a tal punto che si affrettò a produrlo anche lui. Attraverso i contatti che aveva sul territorio acquistò il Castello di Verduno e i suoi poderi e – con l’aiuto del Generale Staglieno – iniziò a prodursi quel vino così prezioso.
Altri personaggi, tra storia e attualità
Nella vicenda del Barolo si sono intercalati tanti altri personaggi, alcuni di spiccata levatura istituzionale, altri solo interpreti dell’evoluzione produttiva di quel vino. A cominciare da Camillo Benso Conte di Cavour, apprezzato dapprima per l’impegno condotto nella tenuta di famiglia a Grinzane Cavour e poi per l’opera illuminata come Ministro dell’Agricoltura e Primo Ministro del Regno Sabaudo. A proposito di Casa Savoia, come non ricordare l’impegno del Re Vittorio Emanuele II nella realizzazione della tenuta di Fontana Fredda, a Serralunga d’Alba, dove sarebbe sorta la Casa Vinicola Emanuele di Mirafiore trasformata poi nei Tenimenti di Barolo e Fontanafredda appartenuti a lungo al Monte dei Paschi di Siena.
Grazie anche a questi nobili “supporti”, il Barolo proseguì il suo cammino, crescendo costantemente in qualità e immagine. In pieno Ottocento, il Barolo divenne in breve “ambasciatore” di questo piccolo regno alle corti di mezza Europa fino a rivelare i suoi caratteri essenziali, che a fine secolo Lorenzo Fantini nella sua “Monografia sulla Viticoltura ed Enologia della Provincia di Cuneo” avrebbe felicemente sintetizzato nell’essere “conservatico e atto alla esportazione”.
Il Barolo e i suoi produttori sono stati, insieme a quelli del Barbaresco e di altri grandi vini italiani, protagonisti di quel movimento di opinione a sostegno di una legge sui vini di qualità e di origine per distinguerli da quelli generici. Infatti, in mancanza di regole precise, proliferavano già allora le sofisticazioni e le frodi in commercio, esercitando una pesante concorrenza proprio a danno dei produttori di qualità.
Grazie al loro impegno, nel 1908 a Barolo sorse l’Associazione “Pro Barolo” per difendere questo vino dai fenomeni speculativi del tempo. Dopo tale iniziativa, replicata anche a Barbaresco, il primo risultato concreto arrivò a metà degli Anni Venti con la legge sui “Vini Tipici di Pregio” (Decreto legge del 1924 convertito in Legge nel 1926). Grazie a questo provvedimento, nel 1933 il Barolo veniva riconosciuto “Vino Tipico di Pregio” insieme al Barbaresco e, l’anno successivo, i produttori più avveduti dei due vini fondavano il Consorzio di Difesa Vini Tipici di Pregio Barolo e Barbaresco, ancora oggi operante, pur tra varie evoluzioni statutarie, come Consorzio Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani.
Il periodo più critico per il Barolo e la restante realtà albese coincise con gli anni ’40 e ’50 del Novecento, da un lato per le gravi interferenze della Seconda guerra mondiale e, dall’altro, per una ricostruzione post-bellica rivelatasi molto impegnativa. La fondazione di alcune cantine cooperative negli anni Cinquanta segnò l’inizio del riscatto del mondo vitivinicolo del Barolo e degli altri vini albesi. A Castiglione Falletto, Arnaldo Rivera, illuminato maestro di scuola e attivo partigiano durante la Guerra di Liberazione, fu l’esempio concreto di questo primo Rinascimento, fondando La Terre del Barolo.
Il passo più importante avvenne nel 1963 con l’emanazione della Legge 930 sui vini a denominazione di origine, che avrebbe riconosciuto al Barolo la Doc il 23 aprile 1966 e la Docg il 1° luglio 1980. Il mondo del Barolo nella seconda parte del Novecento è costellato di figure, illuminate e tenaci, che hanno mantenuto alto il livello qualitativo di questo vino, pur in presenza di regole produttive ancora frammentarie.
A fianco del già citato maestro Rivera, ricordiamo uomini come Renato Ratti e Massimo Martinelli, Giulio e Bartolo Mascarello, Paolo Cordero di Montezemolo, Giuseppe Mascarello, Alfredo Currado Vietti, Olivio e Gildo Cavallotto, Giovanbattista Rinaldi, Francesco Rinaldi, Felice Bonardi, Aurelio Settimo, il Comm. Burlotto, Giacomo e Luigi Oddero, Giovanni e Aldo Conterno, Beppe Colla che alla Prunotto fu tra i primi a riportare in etichetta il riferimento al cru come indicazione più sicura dell’origine. E poi il Marchese Fracassi a Cherasco, il Comm. Bressano e Livio Testa a Fontanafredda, l’Ing. Giuseppe Boffa alla Pio Cesare e, tra le donne, Tota Virginia a Serralunga d’Alba
Il riconoscimento delle due denominazioni di origine ha definitivamente consacrato il Barolo come vino di qualità e immagine. Tutte e due sono state importanti: la Doc perché ha indicato la strada ai produttori che l’hanno seguita con saggezza e caparbietà; la Docg perché ha unito al controllo cartaceo quello fisico, delimitando con rigore la produzione del Barolo a vantaggio della sua identità e del suo valore economico.
Una zona, 11 paesi e 181 MeGa
La zona di origine delle uve Nebbiolo da Barolo è una terra di colline e valli, con crinali scoscesi, situata in provincia di Cuneo, nel Piemonte meridionale. In tutto sono undici paesi, tre dei quali (Barolo, Castiglione Falletto e Serralunga d’Alba) inclusi per intero e gli altri otto (Diano d’Alba, Grinzane Cavour, Monforte d’Alba, Novello, Cherasco, La Morra,Verduno e Roddi) solo per una parte di territorio.
Dal punto di vista morfologico, la zona del Barolo è un paesaggio di colline, allungate e scoscese, tra loro disposte nei modi più vari a creare un “reticolato” di rara bellezza.
Qui il clima ha uno stile continentale con il fresco e il temperato che prevalgono, anche se ultimamente il caldo si è un po’ rafforzato. Se un tempo la neve dominava l’inverno, oggi è un po’ più latitante. Non si sa se sia un fenomeno passeggero o duraturo, comunque la pioggia compensa questa “latitanza”, soprattutto in primavera e autunno. L’estate, invece, porta il caldo e, a volte, anche l’afa, sperando che qualche temporale – senza grandine – possa mitigare la situazione. Gli anni più recenti non sempre hanno confermato i consueti 800-900 millimetri annui di pioggia, ma la vite è capace per conto suo di andare a prendersi l’acqua anche a notevoli profondità.
Ogni tanto lungo l’anno ci sono venti forti e fastidiosi, ma di norma la protezione a sud-ovest delle Alpi Marittime e dell’Appennino Ligure riduce tutto a brezze leggere. Non è trascurare il fenomeno “nebbia” nelle parti basse della zona, in prossimità dei corsi d’acqua e nei mesi più freddi.
Detto che nei vigneti la varietà esclusiva è il Nebbiolo, la modificazione più recente del Disciplinare del Barolo risale al 30 settembre 2010. L’invecchiamento minimo è definito in 38 mesi dal 1° novembre dopo la raccolta delle uve. Almeno 18 di questi mesi devono passare in contenitori di legno. Per utilizzare in etichetta il termine “Riserva”, il vino deve stare in cantina per almeno 62 mesi, calcolati ancora dal 1° novembre dell’anno di raccolta delle uve. Anche in questo caso, la conservazione in legno dev’essere di almeno 18 mesi.
La resa massima dell’uva in vino è del 70% al primo travaso e del 68% a fine maturazione. Perciò, la produzione massima a ettaro è di 8.000 chilogrammi di uva, 5.440 litri e 7.253 bottiglie da 0,75 litri di vino. La gradazione alcolica minima è 13,0 % Vol. e l’acidità totale minima 4,5‰.
Il Barolo Chinato è regolamentato dall’art. 7 del Disciplinare ed è riferito al vino aromatizzato preparato con Barolo e con aromatizzazione specifica legata alla china calissaya.
Si può meglio precisare l’origine delle uve con l’uso delle Menzioni Geografiche Aggiuntive e della “Vigna” con il relativo toponimo. In etichetta, la Menzione può essere riportata da sola, mentre la “Vigna” va indicata in concomitanza con la Menzione.
Le Menzioni Geografiche Aggiuntive (MeGA) sono aree geografiche di estensione inferiore alla zona di origine, che sono state ufficialmente delimitate ed elencate in Disciplinare. Undici di queste corrispondono ai singoli comuni della zona di origine. Le altre 170 sono più piccole e di estensione variabile (da pochi ettari fino anche a 200-300 ettari). I loro nomi fanno riferimento a termini storici o tradizionali, spesso di grande valore identitario.
Il progetto delle MeGA è una straordinaria opportunità per il Barolo, soprattutto perché potrebbe generare in futuro vere e proprie declinazioni specifiche di questo vino, con un’identità sempre più preziosa e un valore economico sempre più elevato.
L’attenzione dedicata alle MeGA si è via via consolidata al punto che nelle ultime vendemmie la quota del Barolo rivendicato con tale riferimento ha spesso superato (60%) la quota di quello senza tale rivendicazione (40%). E, poi, sono in numero sempre maggiore le MeGA utilizzate sulle etichette dei vari Barolo: oggi sono più di 150 e rappresentano più dell’80% del totale.
Un po’ di economia e statistica
La tabella pubblicata qui a fianco sintetizza valori economici relativi alla superficie vitata e alla produzione effettiva tra il 2007 e il 2023 e alla produzione imbottigliata tra il 2008 e il 2023. Nel periodo tra il 2007 e il 2023 (17 annate) la superficie vitata è cresciuta di 429 ettari, il 23,78% del dato iniziale, con un’incidenza media di 25,23 ettari all’anno. Nello stesso tempo, la produzione effettiva è aumentata di 4.122.264 bottiglie, il 37,59% del dato iniziale, con un’incidenza media di 242.486 bottiglie per anno. Proporzionalmente, la produzione è cresciuta di più della superficie vitata e questo evidenzia l’ottimizzazione dell’uso dell’intero potenziale viticolo.
Per quanto concerne l’imbottigliato nell’anno solare, tra il 2008 e il 2023 (16 annate) l’incremento è stato di 3.478.800 bottiglie, cioè il 35,61% del dato iniziale. Al riguardo, va ricordato che il volume imbottigliato deriva dalla sommatoria di più annate messe in bottiglia durante l’anno solare.
Volendo confrontare imbottigliato e produzione effettiva tra il 2008 e il 2023, il dato medio annuale del Barolo messo in bottiglia è stato di 12.239.139 bottiglie a fronte della media della produzione effettiva di 13.606.625 bottiglie. Il dato medio dell’imbottigliato incide su quello della produzione effettiva per l’89,95%, un valore elevato che conferma l’ottimo stato di salute della denominazione. Il 10,05% che rimane non è un dato negativo, perché – più che una giacenza- rappresenta una scorta per gli anni a venire.