Quello della corretta informazione al consumatore è il teatro sul quale si sta rappresentando la battaglia sulle etichette alimentari; dovremmo dire di nuovo, perché periodicamente l’argomento si fa scottante, in vista del negoziato sulla proposta che la Commissione Europea presenterà nel 2022.
La missione sarebbe di fornire al semplice consumatore, ci verrebbe da dire al consumatore “sprovveduto”, uno strumento di orientamento tra cibi salutari e meno sullo scaffale del supermercato, bevande alcoliche escluse. Idea nata nel 2012 nel Regno Unito e piaciuta poi alla Francia che ha aggiunto le diverse sfumature di colore, un po’ come per il consumo energetico degli elettrodomestici.
Già l’idea che sullo scaffale possano comparire cibi considerati “non salutari” la dice lunga sulla cultura alimentare dei consumatori, almeno quelli in questione. Ma è esattamente quella che giustifica la proposta del Nutriscore, la famosa etichetta in gradazione di quattro colori, da verde a rosso, che sanzionano il contenuto di tre “imputati” presenti nei cibi: grassi, zuccheri e sale, di per sè considerati dannosi alla salute, senza troppo sottilizzare.
Già in uso in diversi paesi del nord Europa e sostenuta da Francia, Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo più la Svizzera (che non è UE, ma è sede della Nestlè), la famosa etichetta non trova l’approvazione dei paesi mediterranei, tra i quali l’Italia e la Grecia, che vedrebbero penalizzate alcune produzioni come l’olio d’oliva, in teoria un prodotto monoingrediente costituito di grasso, che finirebbe paradossalmente etichettato come pericoloso, nonostante sia universalmente riconosciuto come tra i più salutari. Mentre una famosa bibita a base di coca edulcolorata artificialmente passerebbe l’esame.
Cosa chiedono i paesi contrari? Intanto, un sistema basato sulle quantità effettivamente consumate – va da sè che una persona non si beva 100 grammi di olio di oliva in un sol colpo – e che vengano esclusi dall’etichettatura i prodotti Dop e Igp dei quali la UE ha riconosciuto il pregio e che si è impegnata a difendere. Da qui la proposta di una etichetta nutrizionale a batteria (FOP) proposta dall’Italia che fa invece riferimento alle porzioni e alle tipologie dei componenti distinguendo, ad esempio, tra grassi e grassi saturi.
Ogni “pila” della batteria riporta la percentuale di ogni fattore nutritivo presente nella singola porzione, guardando alla “razione giornaliera raccomandata” per quel tipo di nutriente. Lasciando poi al consumatore informato la responsabilità di bilanciare la sua dieta.
Nel frattempo si è assistito alla costituzione di lobbies tra aziende multinazionali, di cambi di campo tra paesi sostenitori del Nutriscore e detrattori (la Spagna ha aderito solo recentemente dopo un lungo tiramolla giustificato dalla penalizzazione per l’olio d’oliva), di deduzioni e controdeduzioni, il tutto giustificato dal fatto che le etichettature incidono assai sulla libera circolazione delle merci nel mercato europeo e di conseguenza sul lavoro delle aziende agroalimentari che, in base al principio generale, sono costrette ad applicare sulla confezione etichette diverse in funzione del paese di destinazione delle merci.
Secondo Coldiretti è in ballo la difesa del “made in Italy” agroalimentare, un mercato che ha segnto 46,1 miliardi di esportazioni nel 2020, in aumento dell’1,8% rispetto al 2019, in controtendenza agli altri scambi commerciali in tempi di pandemia.
“Non possiamo permetterci un sistema che metta un bollino senza dare informazioni e che non faccia capire il senso di una dieta equilibrata” ha dichiarato in Commissione Agricoltura il ministro delle Politiche Agricole Stefano Patuanelli.
E il vero problema sta proprio qui. Un bel semaforo rosso potrebbe assolvere gli Stati dalla responsabilità dell’educazione alimentare dei propri cittadini, ma una cosa è certa: le etichette a semaforo non aumentano affatto la cultura alimentare dei consumatori.