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Una montagna di tagliatelle

Niente come una piccola montagna di tagliatelle nel piatto, coronata da un generoso cucchiaio di sugo, può rappresentare l’immagine dell’abbondanza

Teresa E. Baccini Giugno 2020
Una montagna di tagliatelle

“Niente come una piccola montagna di tagliatelle nel piatto, coronata da un generoso cucchiaio di sugo, può rappresentare l’immagine dell’abbondanza: sinuosa, aggrovigliata, odorosa di ragù di carne. Effluvi che si sprigionano dagli spazi sospesi tra un nastro di pasta e l’altro per catturare il naso, volumi verticali spinti fino a stuzzicare le labbra già spalancate.

Sì, la tagliatella non è solo una pasta, è un monumento”

Che sarà mai una tagliatella, dite? Beh, quasi un mito, tanto per cominciare. Perché le tagliatelle hanno una dignità gastronomica ufficiale che surclassa perfino gli spaghetti. Sulle tagliatelle i Bolognesi non scherzano. Le vere tagliatelle sono le loro, non si discute.

A Bologna, patria indiscussa di questa famosa pasta all’uovo, della tagliatella hanno fissato perfino la misura regolamentare. Le misure ufficiali, a tagliatella cotta, devono corrispondere esattamente a 8 mm di larghezza, non uno di più, non uno di meno. Perché mai? Perché corrispondono esattamente alla 12.270esima parte dell’altezza della Torre degli Asinelli che insieme a quella della Garisenda è il simbolo indiscusso della città nota come la “Grassa”, oltreché la “Dotta”, come era definita nel Medioevo per la sua antica Università. Un campione in oro dell’autentica tagliatella bolognese è stato depositato presso la sede della Camera di Commercio del capoluogo regionale emiliano-romagnolo nel 1972.

E oggi le tagliatelle bolognesi sono riconosciute come PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) e incluse nell’apposito elenco istituito dal MIPAF (Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali). Perciò, tanto di cappello alle tagliatelle bolognesi.

Dalle lagane romane alle tagliatelle emiliane

Ci sono molte buone ragioni per ritenere che la particolare forma a nastro della tradizionale pasta all’uovo e farina di grano tenero – vale a dire la tipica pasta fresca fatta a mano, perché le odierne formulazioni industriali sono a base di grano duro – sia una discendente autentica del “laganum” latino, che tuttavia doveva essere una sfoglia intera, della misura stessa della padella dove veniva cotta, a vedere l’uso che ne prescriveva il misterioso cuoco romano Apicio nel libro IV del suo ricettario, condita strato per strato con fantasiosi miscugli di carni diverse, un po’ come le lasagne attuali. E d’altra parte doveva essere sottoposta a cotture così prolungate tanto da farne una specie di zuppa, citata anche dal poeta latino Orazio che nelle “Satire” dichiarava di preferire, appunto, la sua casalinga “scodella di porri, ceci e lagane”.

Se è vero che tagliatelle significa ovviamente “pasta tagliata” ci si potrebbe chiedere come dalle lagane romane, semplici e larghi pezzi di pasta tirati con un mattarello (fistula) si sia arrivati alla forma a nastro delle tagliatelle.

Perché si siano assottigliate e ristrette probabilmente ha a che fare con l’elasticità conferita dalle uova all’impasto, dato che le ricette latine non le prevedevano. Ma sarà solo nel XV secolo che il cuoco Maestro Martino, autore del fondamentale “Libro de Arte Coquinaria”, suggerirà di aggiungere bianchi d’uovo nell’impasto, rivelando così la personale necessità creativa di dare forma e plasticità alla pasta nelle sue ricette, perché l’albume consente appunto quell’elasticità e una migliore resistenza alla cottura, tanto quanto il tuorlo conferisce croccantezza e consistenza. Qualità, questa, che verrà richiesta alla pasta nel momento in cui non verrà più utilizzata quasi come un “addensante” alla moda rinascimentale, cotta e ricotta in brodi di cappone ed estenuati stracotti di carni. O al massimo come contorno di capponi lessi e oche ripiene, come suggerisce ancora nel ‘500 l’altrettanto famoso cuoco Bartolomeo Scappi. Cioè quando diventerà pasta e basta.

Una questione di abilità

Perché in quegli anni, in effetti, la pasta fatta a mano è ancora un affare di cuochi di corte e cucine aristocratiche, di ricette complesse e piatti speziati, di ingredienti ricercati e cotture elaborate.

Dovrà prima diventare popolare e quotidiana per diventare asciutta e protagonista del piatto.

Anche se le tagliatelle restano comunque il frutto di una maggiore ricchezza di ingredienti, di raffinatezza e di una manualità più evoluta.

Lo afferma indirettamente anche Pellegrino Artusi nel suo libro “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene” pubblicato nel 1891 che le cita più volte – anche se non condite con il classico ragù bolognese – e riferisce come fossero protagoniste di un vecchio detto bolognese che suonava all’incirca così “Conti corti e tagliatelle lunghe”. Alludendo al fatto che le tagliatelle fatte a regola d’arte dovessero essere lunghe ed elastiche, pena dimostrare una imperdonabile incapacità culinaria.

“…le tagliatelle corte attestano l’imperizia di chi le fece” pontifica l’Artusi “e, servite in tal modo, sembrano un avanzo di cucina…”. Di dosi per la pasta non ne dà, ma prescrive tassativamente “…una sfoglia piuttosto tenera di farina spenta con sole uova, servendovi anche di qualche chiara rimasta…”

Tirate con il mattarello e tagliate al coltello, le tagliatelle diventano lunghe per forza, perché la sfoglia di una volta, distesa a mano con maestrìa dalla “sfoglina”, insostituibile presenza femminile nelle cucine delle osterie emiliano-romagnole di un tempo, poteva agevolmente superare il metro di diametro.

Le tagliatelle devono essere lunghe dunque, secondo l’Artusi e secondo la tradizione bolognese. Lunghe forse perché capaci così di arrotolarsi molte volte sulla forchetta, catturando la carne del condimento come farebbe una pasta ripiena, anche se aperta? Può darsi.

In questo caso però, l’equilibrio del boccone tra pasta e carne è affidato al commensale, diversamente dalla pasta ripiena dove la dose è prestabilita e questo richiede apparentemente una cultura gastronomica più generalmente diffusa.

Ma segna anche l’interdipendenza tra la tagliatella e il suo ragù, un condimento minutamente tritato che non è più elemento principale, come nei ripieni barocchi della cucina aristocratica, ma un insaporitore che esalta la pasta in sé, consistente e ricca della sua dotazione di uova.

L’impiego del pomodoro nel ragù per le tagliatelle non avrà a Bologna il peso che riveste nel ragù napoletano, che prevede il consumo a parte della carne cotta nella salsa usata poi per condire la pasta. Probabilmente è questa la ragione per cui si trovano spesso nei ricettari precedenti, Artusi compreso, condimenti diversi per le tagliatelle – soprattutto il prosciutto crudo – che devono essere stati i condimenti antesignani al ragù alla bolognese.

D’altra parte la salsa di pomodoro per condire la pasta fu un’abitudine che si instaurò nel napoletano solo verso la fine del ‘700 come testimoniano vari ricettari, ad esempio quello del cuoco e filosofo partenopeo Antonio Corrado, come annota Massimo Montanari nel suo recente “Il mito delle origini -Breve storia degli spaghetti al pomodoro”.

Prima che diventi ragù alla bolognese

Il ragù alla bolognese è stato protagonista recentemente della disfida con gli spaghetti, così spesso e abusivamente definiti all’estero “alla bolognese”. Una polemica gastronomica finita perfino sulle riviste di settore e provocatoriamente sopita da un ristoratore bolognese inserendo gli spaghetti alla bolognese nel suo menù per non deludere i visitatori stranieri.

Ma qualunque cosa ne pensino i numerosi turisti – personalmente ho potuto ammirare nella vetrina di una cittadina inglese scatolette (!) di “spaghetti alla bolognese” – a Bologna il ragù è riservato rigorosamente alle tagliatelle.

Nato come stufato di carne sulle tavole rinascimentali, una specie di spezzatino che veniva servito come piatto a sé stante, il ragù doveva ancora incontrare il pomodoro, fatto che accadde tra la fine del ‘700 e l’inizio del ‘800 a Napoli, grazie alle influenze spagnole che avevano portato il pomodoro sulle tavole partenopee prima che altrove.

A Bologna è diventato qualcosa di diverso, saporito e invasivo nella pasta, solo di sfuggita toccato dal pomodoro e il matrimonio celebrato nella città felsinea tra il ragù di carne alla bolognese e le tagliatelle è diventato indissolubile, tanto che anche la sua ricetta ufficiale è stata depositata presso la Camera di Commercio di Bologna nel 1982 dalla delegazione bolognese dell’Accademia Italiana della Cucina che considera l’ente come l’unico depositario delle tipicità gastronomiche locali. E i soci della confraternita “Apostoli della tagliatella” fanno buona guardia.

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