Roero, il Nebbiolo delle sabbie

Rosso elegante di grande fascino e prospettiva

Giancarlo Montaldo Marzo 2017
Roero, il Nebbiolo delle sabbie

“La storia ha dato ragione al Roero, dapprima come nome di una casata nobiliare, poi di un territorio e, infine, di un vino rosso di grandi prospettive. Le colline del Roero hanno preso il posto del Mare Padano e qui il Nebbiolo ha trovato preziosi spazi di coltivazione. Il risultato è un vino rosso elegante e di grande fascino e prospettiva”

Roero è prima di tutto il nome di un famiglia astigiana dedita al commercio e al prestito di denaro.

Originaria probabilmente delle Fiandre, grazie alla sua potenza economica in costante incremento, la famiglia dei Roero dalla fine del 1200 aumentò in modo esponenziale la sua influenza politica nella città astigiana e cominciò, con le sue numerose linee familiari, a occupare con acquisti e infeudazioni molti dei paesi del territorio nord-orientale della provincia di Cuneo, che poi gradatamente assunse il loro nome. Roero, quindi, è anche la denominazione di un territorio nella provincia di Cuneo, una ventina di paesi situati alla sinistra del fiume Tanaro e disposti in una vaga formazione triangolare con direzione da sud verso nord, con il lato più lungo appoggiato alla pianura torinese. Da poco più di trent’anni, Roero è anche una denominazione di origine legata alla coltivazione di due vitigni, l’Arneis come varietà bianca (Roero Arneis) e il Nebbiolo come pianta dal grappolo nero (Roero). Nel caso specifico, Roero è quindi anche il nome di un vino, un rosso da Nebbiolo, che dal 1985 cerca di disegnare nel territorio una produzione di qualità e prestigio capace di seguire le orme del Barbaresco e del Barolo.

UNA STORIA PIÙ ANTICA DI QUANTO SI POTREBBE PENSARE

Se le vicende del Roero come vino ottenuto dal Nebbiolo iniziano solo a metà degli anni Ottanta del Novecento, i legami tra questa varietà e le colline che nell’Albese stanno alla sinistra del Tanaro sono molto più antichi, a conferma di una sinergia che viene da lontano. Ci pare interessante ricordare ciò che scriveva Renato Ratti a proposito del Nebbiolo coltivato alla sinistra del Tanaro nel 1977 nel libro “Guida ai vini del Piemonte”: “Il più illustre personaggio allietato dal Nebbiolo dei Roeri fu, secondo la tradizione e deduzioni storiche, nientemeno che Federico Barbarossa, il grande imperatore, in uno dei periodi il cui l’avversa sorte lo costringeva a cercar rifugio con pochi fidi in asili sicuri.” Secondo lo storico Pachner, il Barbarossa avrebbe passato l’inverno tra il 1167 e il 1168 nel castello di Monteu Roero (allora Monte Acuto) ospite del feudatario Guido di Biandrate a lui fedele. La scelta del castello di Monteu sarebbe stata dettata non solo dalla sua “posizione isolata”, ma anche “perché le valli intorno avrebbero potuto vettovagliare la corte imperiale.” E, conclude Ratti, “dalle valli intorno saliva alla mensa imperiale il vino del luogo, il Nebbiolo.” Nel 1200, il Nebbiolo è stato uno dei primi vitigni a segnalare la propria identità nell’anonimato dei testi medioevali, che solitamente omettevano il riferimento varietale. Il Nebbiolo è citato nel 1268 in un documento di archivio del comune di Rivoli (TO). Allo stesso secolo risalgono altre citazioni di tale vitigno nell’Astigiano e nell’Albese. A inizio del Trecento (1303), c’è un’altra segnalazione che fa riferimento al Roero: a Canale figura “carrata una de bono puro vino nebiolio” all’interno del fitto annuale dovuto dal notaio Guglielmo Baiamondo. Negli Statuti del Comune di Canale, scritti nel 1419 e dati alle stampe nel XVI secolo, si rintraccia una delle prime regolamentazioni dell’inizio della vendemmia “La festa di San Michele (29 settembre) fissa l’inizio della vendemmia, che può essere anticipata solamente dal Consiglio del podestà, anch’esso obbligato a riunirsi prima di tale data e formato naturalmente da agricoltori che conoscono bene l’uva e il suo grado di maturazione.” Fissando come inizio di vendemmia una data così tardiva è verosimile che molti riferimenti andassero alle vigne di Nebbiolo, varietà notoriamente più tardiva di tutte.

FRAGOLE DEL ROERO, VARIETÀ ALBA

I secoli XVI e XVII segnano l’affermazione del Nebbiolo dei Roeri (fino a qualche anno fa molti usavano questa grafia) tra le famiglie nobiliari torinesi. Il territorio roerino non era distante dalla città sabauda e la notorietà delle fragranze di quel Nebbiolo hanno fatto in fretta ad appassionare le mense della capitale piemontese. Camillo Benso di Cavour, ad esempio, quando pranzava al Cambio, il ristorante davanti al Parlamento, aveva sul suo tavolo il “Nebiolin” del Roero, come amava denominarlo per distinguerlo anche dal Nebbiolo più strutturato delle terre del Barolo e del Barbaresco. Il richiamo della piacevolezza di questo vino giunse anche alla corte dei Savoia e Carlo Alberto se ne innamorò e per produrlo acquistò due appezzamenti vitati a Santa Vittoria d’Alba. La fama del Nebbiolo prodotto sulle colline del Roero si protrasse per tutto il 1800. Anzi, a fine secolo, la produzione spumantistica che in Piemonte stava muovendo i primi passi sulle orme dello Champagne consigliò a numerosi imprenditori di provare anche il Nebbiolo come base per questi nuovi prodotti. Ma il secolo XIX è stato anche un periodo di grandi calamità per la vigna e i suoi coltivatori: a partire dal 1840 hanno fatto la loro comparsa tre grandi flagelli destinati a mettere a dura prova la capacità professionale della viticoltura del tempo. Oidio, Fillossera e Peronospora aggredirono pesantemente i filari dell’epoca, determinando danni così gravi (soprattutto la Fillossera) che in molte aree la viticoltura venne ridotta al lumicino. Roero e Langa reagirono in modo differente a queste ostilità. È vero che anche in Langa tornò a prevalere un’agricoltura mista, ma nel Roero il legame con il vigneto venne messo maggiormente in discussione. A inizio Novecento, le colline attorno a Canale e paesi limitrofi cambiarono le loro geometrie: ai filari di viti si sostituirono poco per volta gli impianti di alberi da frutto, in particolare i pescheti; in altri paesi si svilupparono le coltivazioni di pere Madernassa, di prugne, di albicocche. La stessa viticoltura acquisì, a fianco di quella vinicola, anche la specializzazione per le uve da mensa. L’esempio della Favorita come uva da tavola tuttora suscita ricordi ed emozioni. In Italia, nella prima metà del Novecento, due guerre mondiali e la politica autarchica fascista diedero un brutto colpo allo sviluppo vitivinicolo di qualità. Anche nel Roero.

Il grande canyon delle Rocche

LA STORIA RECENTE

Anche la storia più recente vale la pena di essere raccontata. Dopo che nel 1966 Barolo e Barbaresco avevano ottenuto la Doc, nel 1970 toccava al Nebbiolo d’Alba, che segnava il riconoscimento di qualità e origine anche per il Nebbiolo della sinistra Tanaro. In quel momento, nel Roero non si sentiva ancora la necessità di una propria denominazione. Come primo passo, bastava il Nebbiolo d’Alba. Ma, all’inizio degli anni Ottanta cominciò a farsi strada nelle coscienze dei viticoltori del Roero l’idea di una denominazione di origine limitata al proprio territorio. Da un lato c’era il Nebbiolo che meritava un riferimento di questo tipo, dall’altro era venuto alla ribalta un vitigno a frutto bianco che chiedeva attenzione, l’Arneis. Le discussioni furono lunghe e accese. Non tutti erano convinti di questo nuovo passo. E c’erano i limiti strutturali che rendevano ostico il passaggio. In particolare, la legge 930/63 sui vini a Doc e Docg non consentiva su un territorio la presenza di due denominazioni con la stessa base ampelografica.

Se per l’Arneis non c’erano ostacoli, per il Nebbiolo se ne contavano parecchi. Anche tra i produttori del Roero erano tanti quelli che, pur aspirando a una Doc legata al Nebbiolo denominata Roero, facevano fatica a rinunciare al Nebbiolo d’Alba. L’indimenticato Renato Ratti, enologo, stratega vitivinicolo e a quei tempi membro del Comitato Nazionale per le Denominazioni di origine, aveva trovato una soluzione “mediana”, ovvero delimitare, nell’ambito della Doc Nebbiolo d’Alba, la “sottozona Roero”, attribuendole regole specifiche, anche più rigide della denominazione generale. Poteva essere la soluzione di prospettiva, ma non fu condivisa. La soluzione giunse nel 1985 con il DPR del 18 marzo che riconosceva a 19 paesi del Roero (4 per l’intero territorio e 15 per una parte) la possibilità di produrre il vino a Doc Roero con la seguente base ampelografica: Nebbiolo per almeno il 95%, Arneis tra il 2 e il 5% e un 3% di altri vitigni coltivati nel Roero. Questa regolamentazione è stato solo un primo passo, ma non ha risolto tutti i problemi. Il Roero continuava a essere un vino giovane, fragrante, con un periodo di maturazione limitato (fino al 30 maggio dell’anno successivo alla vendemmia).

Si sbagliava chi aveva pensato con questo passo di creare un vino capace di stare al fianco di Barbaresco e Barolo. Solo la resa per ettaro, fissata in 8.000 chilogrammi, lo accomunava ai due grandi Nebbioli di destra Tanaro. Tutto il resto ispirava il contrario, compresa la mentalità più ricorrente dei produttori, che spesso continuavano a produrre un vino giovane, fragrante, senza troppa capacità di resistere al tempo. Così, proseguì il dibattito nel Roero. I più lungimiranti consideravano l’impostazione del Roero Doc solo come un primo passo verso un vino che potesse coesistere con Barolo e Barbaresco. Nulla di nuovo portò, nel 1989, l’aggiunta della tipologia Roero Arneis alla denominazione: era solo la naturale conclusione del percorso di qualificazione delle uve bianche prodotte nel Roero. Un contributo al dibattito arrivò nel 1994 dal riconoscimento della Doc Langhe, che tra le tipologie aveva anche il Langhe Nebbiolo, che poteva rappresentare quell’idea ottocentesca di “Nebiolin”, molto legata al mondo del Roero. Il Langhe Nebbiolo Doc si poteva produrre sia in destra che in sinistra Tanaro e quindi per il Roero poteva sostituire l’idea del vino giovane, fresco e senza troppe pretese di resistenza agli anni. Inoltre, nel 1992, la legge generale sui vini Doc e Docg era cambiata. La 930 del 1963 era stata sostituita dalla legge 164 del 1992. Nel cambio, era venuto meno anche il divieto di trovare sul medesimo territorio due vini con la medesima base ampelografica. La presenza del Nebbiolo d’Alba nel Roero non era più un limite. Così, il dibattito sull’identità del Roero come vino del Nebbiolo riprese più forte di prima. Da un lato si voleva liberare il Roero, ostaggio di quel “2-5%” di Arneis, dall’altro si cercava di progettare un vino che rivelasse una struttura più convincente e dimostrasse una maggiore propensione a resistere al tempo. Gli anni Duemila portarono la soluzione definitiva. Il Decreto ministeriale del 7 dicembre 2004 dava il via libera al riconoscimento della Docg al Roero e, con alcune, successive modificazioni, sanciva l’attuale base ampelografica per questo vino rosso: Nebbiolo dal 95 al 100%. L’eventuale 5% si può completare con vitigni a bacca rossa non aromatici idonei alla coltivazione nella Regione Piemonte. Non viene più citato il vitigno Arneis.

DOVE NASCE IL ROERO

Come avrete capito, siamo in Piemonte, in particolare nell’Albese, dove le colline alla sinistra del Tanaro incontrano a nord la pianura che scivola verso Torino e a est altre colline, quelle del Monferrato astigiano. In tutto sono ventidue paesi, che creano un territorio di colline, valli e pianure con una vaga forma triangolare. Il lato maggiore guarda a nord, mentre l’angolatura più pronunciata punta a sud la Langa, alla destra del fiume. Diciannove di questi comuni costituiscono la zona di origine del Roero Docg e sono Canale, Corneliano d’Alba, Piobesi d’Alba, Vezza d’Alba per intero e Baldissero d’Alba, Castagnito, Castellinaldo, Govone, Guarene, Magliano Alfieri, Montà, Montaldo Roero, Monteu Roero, Monticello d’Alba, Pocapaglia, Priocca, S. Vittoria d’Alba, S. Stefano Roero, Sommariva Perno per una parte del loro territorio. Sono fuori dalla zona del vino, pur rientrando nel Roero territoriale, i paesi di Ceresole d’Alba, Sanfré e Sommariva del Bosco. Dal punto di vista ambientale, le differenze morfologiche e strutturali sono evidenti, così come le origini geologiche. La fascia più occidentale, in gran parte un altopiano ondulato e pianeggiante, risale all’era Quaternaria (Pleistocene) e non è dedicata alla coltura della vite. A dividere quest’area dalla parte vitata disposta verso oriente c’è il grande “canyon” delle Rocche, che taglia da sud-ovest a nord-est l’intero territorio del Roero. Alla destra di questo grande “canalone”, troviamo un ampio sistema collinare, con diverse conformazioni e differenti origini geologiche: se la zona più centrale risale al Terziario e in particolare al Pliocene, con situazioni collinari che sottolineano la ripidità del suolo con frequenti formazioni a cocuzzolo, le colline che si affacciano sulla vallata del Tanaro, sempre originate nell’Era Terziaria, appartengono a un periodo più antico, il Miocene, proprio come le dirimpettaie formazioni collinari di Langa. Ma molte di queste colline non sono incluse nella zona del Roero Rispetto alla destra Tanaro, i terreni del Roero hanno un’origine più recente e sono il risultato di sedimentazioni, in un mare interno primordiale denominato Golfo Padano, di detriti di diversa origine. La derivazione marina è ribadita dalla inclusione nei classici terreni del Roero di resti fossili di animali e vegetali vissuti in queste zone alcuni milioni di anni fa. Si sono così originati terreni marnoso-sabbiosi che costituiscono un substrato molto vocato alla coltivazione viticola, con la produzione di vini molto accattivanti dal punto di vista olfattivo e dotati di una elegante struttura sapida.

LA FIRMA DEL NEBBIOLO

C’è l’imprimatur del Nebbiolo in questo vino dai caratteri eleganti e mai invadenti. Il Nebbiolo tra i vitigni è quello più aristocratico, che cerca gli ambienti accoglienti e pretende dal viticoltore un’attenzione maniacale. Per questo, ha trovato casa solo in poche terre, soprattutto in Italia. Le esperienze fuori dai confini italiani sono estemporanee e non sempre danno le stesse soddisfazioni.
I suoi caratteri in vigneto sono facilmente sintetizzabili:
– foglia grande, pentagonale, trilobata o pentalobata;
– grappolo piuttosto sviluppato, piramidale allungato, spesso alato;
– acino tondo, violaceo scuro e molto pruinoso;
– portamento della pianta maestoso. Il Nebbiolo è pianta assai vigorosa e questo consiglia una potatura “generosa” del tralcio fruttifero, secondo il classico sistema Guyot con modifica ad archetto. Ha un ciclo vegetativo molto lungo, iniziando a germogliare ad aprile, maturando i frutti a ottobre inoltrato e lasciando cadere le foglie anche oltre la metà di novembre.

I PARAMETRI PRINCIPALI

Dal punto di vista regolamentare, il Roero è diventato Doc con il DPR 18 marzo 1985 e Docg con il DM 7 dicembre 2004. La modificazione più recente del Disciplinare è datata 7 marzo 2014 ed è in corso una nuova pratica che porterà all’inserimento delle Menzioni Geografiche Aggiuntive. Almeno al 95% dev’essere la presenza del Nebbiolo nei vigneti, ma in genere è il 100%. La maturazione minima è di 20 mesi calcolati dal 1° novembre dell’anno di raccolta delle uve e con una permanenza in legno di almeno 6 mesi. Esiste anche la tipologia Riserva: in questo caso, il periodo di maturazione diventa di 32 mesi, mentre la permanenza in legno resta inalterata. La produzione massima per ettaro è di 8.000 chilogrammi di uva, 5.600 litri e 7.467 bottiglie da 0,75 litri di vino. La gradazione alcolica minima è 12,50 % Vol e l’acidità totale minima 4,5‰.

NEL CALICE, LA PIACEVOLEZZA

Nel calice, i caratteri del Roero regalano piene soddisfazioni. Il Roero propone uno stile fruttato e fragrante già dal suo bel colore rubino accattivante, che nel tempo si veste di riflessi granati sempre più insistiti. Al naso, il suo complesso fruttato richiama la viola, il lampone, le fragoline di bosco, ma senza mascherare una chiara complessità eterea che apre ai sentori speziati di cannella, pepe e con gli anni di vaniglia. Al palato, il sapore è secco, ampio, caldo e, in taluni casi, sfiora il velluto. Questa intrigante armonia sapida lo pone tra i più graditi ospiti della tavola: la struttura non esuberante e una tannicità moderata lo fanno abile compagno di una cucina dai riferimenti internazionali: i piatti di entrata saporiti, i primi piatti all’italiana, gli arrosti e gli stufati di carne, i formaggi di media stagionatura.

I VALORI E I DATI ECONOMICI

Dal punto di vista economico, il Roero Docg presenta una situazione praticamente stabile. La vendemmia 2016, la trentaduesima dal momento del riconoscimento della Doc, disponeva di un potenziale viticolo di 210 ettari. La produzione rivendicata è stata di 5.297 ettolitri, pari a 706.285 bottiglie. Nella realtà, le bottiglie commercializzate di Roero Docg oggi sono un po’ meno (450.000 bottiglie circa). Ciò significa che ci sono margini per crescere. Il legame tra questo vino e i produttori del territorio poco per volta si va consolidando. A guidarlo c’è la consapevolezza che anche su queste colline il Nebbiolo interpreta al meglio il suo ruolo di protagonista dell’origine e della qualità.

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