Quando la birra incontra il vino

L’Italian Grape Ale l’unione tra i due mondi

Andrea Piacenza Settembre 2018
Quando la birra incontra il vino

Birra e vino, due mondi apparentemente paralleli e diversi, che nell’ultimo decennio hanno visto crescere le occasioni di incontro.

Non tanto in inutili sfide per stabilire quale tra le due bevande alcoliche più famose e diffuse al mondo sia la più versatile, quanto invece nella ricerca di una fusione in quello che a tutti gli effetti si sta affermando come lo stile distintivo del “made in Italy” all’interno del panorama brassicolo internazionale.
L’inserimento della categoria Italian Grape Ale, o IGA come è più comunemente conosciuta, nell’appendice finale del BJCP (Beer Judge Certificate Program), a partire dalla revisione di maggio 2015, è indubbiamente un riconoscimento importante per il nostro Paese, sebbene non sia ancora considerata alla stregua di uno stile ufficiale.

UNO “STILE” DALLE MILLE SFACCETTATURE

L’Italian Grape Ale è definita come “una Ale italiana caratterizzata da diverse varietà di uve, a volte rinfrescante, altre complessa”. Si tratta di una categoria che unisce appunto il mondo brassicolo a quello del vino, molto varia e soggettiva dal punto di vista della ricetta, con la possibilità di utilizzare l’uva sotto forma di frutto oppure come mosto, sia da bacca bianca che rossa, fino ad arrivare a una percentuale del 40% nella massa fermentabile. Ampia libertà sia per quanto riguarda il colore, i malti e i luppoli da utilizzare, la gradazione alcolica e i tempi di inoculo, passando dall’aggiunta del mosto d’uva fresco o concentrato direttamente nella fase di bollitura all’utilizzo durante la fase di fermentazione o addirittura di affinamento. Si possono inoltre utilizzare lieviti per birre ad alta fermentazione oppure ricorrere a lieviti specifici da vino, con tempi di fermentazione di solito lunghi. Ne deriva dunque una categoria davvero molto ampia e aperta a tante sfaccettature che potrebbero essere catalogate in diverse sottocategorie.

Cariossidi di orzo maltato

LE ORIGINI E LA NASCITA DELLE ITALIAN GRAPE ALE

Non si può dire con certezza se le prime sperimentazioni di “ibridazione” siano nate in Italia, considerando anche la giovane età del nostro movimento birrario. Negli USA già a partire dalla fine degli anni ‘90 Blaine Landberg, all’epoca homebrewer e poi fondatore di Calicraft Brewing, provava l’utilizzo dei lieviti da Champagne per quella che poi diventerà la sua Buzzerkeley Sparkling Ale. Per non parlare di un punto di riferimento come Sam Calagione, fondatore di Dogfish Head, che fin dal 1996 gettava un ponte di collegamento tra i due mondi, partendo dalla Raison D’Etre, con uva passa verde, proseguendo con la Midas Touch, punto d’incontro tra birra, vino e idromele, la Red & White, con mosto di Pinot Nero, la Nobel Rot, con uve Viognier infettate da botrytis cinerea, e la Sixty One, con mosto di Syrah californiano. Se dobbiamo però individuare un capostipite in Italia del legame tra birra e vino non ci sono molti dubbi: si tratta di Nicola Perra, del Birrificio Barley di Maracalagonis in Sardegna. É il 2006 quando dalla sua intuizione di usare la sapa (mosto cotto) da uve Cannonau nasce la BB10, prima IGA italiana in assoluto, quando ancora questa classificazione neppure esisteva. Altre eccellenti creazioni sono seguite nella linea BB di Barley, come la BB9, con sapa di Malvasia, la BBEvò, con sapa di Nasco, la BBBoom, con sapa di Vermentino e le più recenti BB6 e BB7, che hanno introdotto una tecnica inedita per una birra tramite aggiunta di mosto fiore da spremitura soffice di uve Malvasia e Moscato di Cagliari rispettivamente, concentrato poi a bassa temperatura. Da ricordare tra i primi birrai a sperimentare l’unione tra birra e uva anche altri due nomi: Riccardo Franzosi di Montegioco (con Tibir e Open Mind) e Valter Loverier di Loverbeer (con BeerBera, D’uvaBeer e Nebiulin-a), anche se quest’ultimo è più orientato al mondo delle Sour Ale. L’attribuzione all’Italia di questa categoria non va pensata però solo in funzione della grande presenza di vitigni autoctoni e quindi di materia prima su cui sperimentare. Indubbiamente si tratta di uno “strumento” in più per raccontare il proprio territorio e l’occasione per contribuire in un modo diverso alla riscoperta di antichi vitigni minori, ma la decisione del BJCP è figlia anche della grande creatività dei nostri birrai e della loro capacità di trovare il giusto equilibrio in questa categoria così pericolosamente libera, riuscendo ad affermarsi anche in campo internazionale.

TANTE INTERPRETAZIONI

Sono davvero numerose le produzioni di IGA in Italia e la cifra della qualità è data anche dalle cantine che si sono legate ai birrifici: accanto alle piccole realtà troviamo nomi affermati del nostro panorama vitivinicolo come Argiolas, che collabora con il Birrificio Barley, Marisa Cuomo, da cui il Birrificio Sorrento prende il mosto di Furore Bianco (Falanghina e Biancolella) per realizzare la Ligia, Walter Massa, che collabora con Montegioco, per citarne solo alcuni. Altri giocano invece in casa, come per esempio nel caso di Birra Gjulia, della famiglia Zorzettig, che propone la Ribò, con mosto di Ribolla Gialla che le dona un bouquet floreale e grande freschezza e sapidità al palato, e la Grecale, la prima e unica in Friuli con l’aggiunta di mosto di Picolit, che ha già saputo dimostrare la propria longevità, evolvendo verso un complesso e ampio bouquet di frutta secca, note vinose e frutta matura, pur mantenendo al palato una freschezza invidiabile anche dopo 5-6 anni. Anche nel caso del toscano Brùton il legame con l’azienda di famiglia, Fattoria di Magliano, ha sicuramente contribuito alla spinta verso la produzione della Limes, realizzata su una base Saison con aggiunta di mosto di Vermentino maremmano stabilizzato a freddo. Il risultato è una birra di una freschezza e finezza eccezionale, che trova il perfetto equilibrio tra luppoli, malto e uva, con una vena acida e minerale, quasi salina, profumi di frutta bianca e una nota citrica ed erbacea. Indubbiamente una delle migliori interpretazioni della categoria. A Vinitaly 2018 è stata presentata anche la Limes Rosa, prodotta con mosto di Sangiovese vinificato in bianco, oltre a una produzione sempre a base di mosto di Sangiovese di un altro indiscusso protagonista toscano. Si tratta de Il Tralcio del Birrificio del Forte di Francesco Mancini, che assieme a Birrasanta fa da apripista per il nuovo progetto “Le Radici: alla (ri)conquista del passato”, dedicato alla fusione tra l’esperienza brassicola maturata in questi sette anni di vita e le tradizioni territoriali radicate nella cultura vitivinicola della nostra penisola. Le creazioni di Francesco si sono sempre contraddistinte per equilibrio ed eleganza, che non vengono meno nel suo primo approccio al mondo delle IGA. Il Tralcio è ottenuto incorporando al mosto base di malto d’orzo il mosto di Sangiovese, con una fermentazione mista a opera di lievito da birra affiancato da un ceppo enologico. L’ulteriore rifermentazione in bottiglia dona una gasatura elevata, che ricorda quasi quella di uno spumante Metodo Classico. Nel bicchiere rivela un colore carminio e una schiuma rosata e persistente, con un profilo olfattivo che spazia dalla crosta di pane e dalle note di leggera tostatura ai frutti rossi (ciliegia, ribes), alla mela cotta, fino a una piacevole speziatura. L’assaggio è molto scorrevole, nonostante i 10 gradi alcolici, perfettamente bilanciati dall’acidità e dall’effervescenza e l’ingresso morbido si evolve piacevolmente in un finale asciutto e molto pulito che invoglia la beva.

LE IGA RAPPRESENTANO IL FUTURO?

Non c’è dubbio che le Italian Grape Ale rappresentino un mondo relativamente nuovo per la nostra scena brassicola, che può risultare inusuale per un consumatore di birra abituato alle categorie più classiche. É uno “stile” che, assieme al mondo delle Sour, allarga la versatilità delle produzioni birrarie artigianali nell’abbinamento con la cucina d’eccellenza, consentendo accostamenti finora difficilmente realizzabili con una birra e spesso anche con un vino, e questo può essere il suo punto di forza. La sfida sarà andare oltre la moda del momento, che purtroppo ci regala anche produzioni discutibili, rafforzando l’immagine che la scena italiana si sta costruendo anche all’estero.

Una curiosità per chiudere: all’ultima edizione della Brussels Beer Challenge nella categoria “Italian style Grape Ale” ci siamo piazzati solamente al terzo posto con la Roè del Birrificio Sagrin di Torino, dietro a due produzioni statunitensi, segno che questo stile “made in Italy” è approcciato in maniera molto seria anche oltreoceano.

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