“Ogni vip straniero che capita in Italia, che sia un attore, un cantante o uno sportivo, ci tiene sempre a sottolineare con entusiasmo il piatto italiano che preferisce: spacheeetti! E il termine pasta, fateci caso, pronunciato in italiano anche se variamente storpiato, è comprensibile in tutte le lingue del mondo. Sì, Il made in Italy passa anche di qui”
Almeno una volta al giorno, tutti i giorni, per 365 giorni all’anno. Non è una prescrizione medica, ma quello che si ritiene sia il consumo medio di pasta nelle regioni italiane.
Fanno circa 65 grammi al giorno. Una porzione scarsina per i più. Ma le medie sono medie, si sa. Qualcuno che ne consuma il doppio c’è di sicuro. Quando parliamo di pasta, sia chiaro, parliamo di pasta secca alimentare. Un campo nel quale non ci batte nessuno. Secondo le statistiche dell’IPO (International Pasta Organisation), infatti, in Italia si consumano più di 24 chilogrammi a testa di pasta all’anno, il che pone a distanza gli altri paesi tra i maggiori consumatori come Tunisia con poco più di 16 chilogrammi e Venezuela con circa 12 chilogrammi, a loro volta seguite da Grecia con poco più di 11 chilogrammi e Svizzera con circa 9 chilogrammi. Gli Usa veleggiano a metà classifica attorno agli 8 chilogrammi a testa; a poco meno di 8 chilogrammi c’è la Russia, che sta vivendo un boom di importazioni e ha anche ospitato a ottobre 2016 il World Pasta Day. Durante l’evento è stato eletto Paolo Barilla come nuovo presidente dell’associazione dei pastai di tutto il mondo, l’IPO appunto, che si propone di promuoverne il consumo. E sono già 52 i paesi al mondo che consumano almeno un chilogrammo pro capite di pasta all’anno, compreso il fanalino di coda Irlanda.
In totale, nel mondo, si producono circa 14 milioni di tonnellate di pasta e di questi l’Italia ne produce 3,3 milioni, seguita da Usa 2 milioni, Turchia 1,3 milioni, Brasile 1,2 milioni, Russia 1,1 milioni (dati IPO 2015). Dunque l’Italia è largamente il primo paese produttore al mondo e il primo paese consumatore. E ci mancherebbe. Abbiamo inventato i modi migliori per mangiarla! Ma i numeri non bastano a spiegare il successo della pasta nel mondo, semplicemente lo certificano. E non è così immediato capire le ragioni di un gradimento che non ha confini per un prodotto così spiccatamente mediterraneo e, nel caso italiano, strettamente territoriale.
LA VERA CULLA DELLA PASTA SECCA
La storia della pasta di semola di grano duro è tutta centrata nel Mediterraneo, con buona pace della leggenda a proposito dei Cinesi inventori degli spaghetti, riportati a Venezia da Marco Polo attorno al 1295. In realtà ormai molti autori hanno provato che si tratta al massimo di storie parallele, di una medesima forma, quella di una pasta filiforme, inventata in due contesti alimentari diversi, ma non con l’impiego della stessa materia prima – in Cina si conosceva il grano tenero, non il grano duro – e non nella stessa direzione, essendo la civiltà cinese rimasta legata alla pasta fresca. In verità i Veneziani hanno brillato per ben altri commerci e comunque all’epoca la pasta era già stata inventata, anche se non nelle fantasiose forme attuali, ma semplicemente in due varietà principali, quella dei fili allungati tipo vermicelli e quella piccola a forma di grani, arrotolati a mano. Secondo Françoise Sabban, studiosa di storia dell’alimentazione e autrice insieme a Silvano Serventi del libro “La pasta, storia e cultura di un cibo universale”, la Sicilia era già il fulcro di un vivace commercio di pasta secca fin dal XII secolo. Basti per tutte la testimonianza del geografo arabo Idrisi (1100-1165) che racconta ci fossero nella città di Trabia, in Sicilia appunto, molti molini ad acqua e di avere visto fabbricare nei poderi intorno molta pasta da esportare “… in altri paesi di Musulmani e Cristiani: che si spediscono moltissimi carichi di navi…”. La definizione di itryya che ne dà il grande geografo arabo ricorda molto il nome di tria, usato spesso come sinonimo di pasta nel Sud Italia e nel Salento ancora oggi per indicare la tradizionale pasta lunga a spirale a base di semola di grano duro che si prepara con i ceci. Per sopportare senza danni i trasporti via mare ed essere dunque materia di commercio nel Mediterraneo, la pasta doveva essere ben essiccata ed è per questo che la confezione con la semola di grano duro dava maggiore garanzia. Un procedimento che gli Arabi conoscevano bene e che i Siciliani, al confine tra mondo arabo e mondo cristiano, impararono alla perfezione. D’altronde la Sicilia, insieme alla Puglia, era già stata il granaio dell’Impero Romano.
LA PASTA CIBO QUOTIDIANO
Per tutto il Medioevo sono scarsissime le citazioni di pasta secca da parte dei grandi cuochi che preferiscono consigliare nei loro ricettari la fabbricazione casalinga della pasta, quindi la pasta fresca, anche se non ancora addizionata alle uova, ma Maestro Martino, verso la metà del ‘400, ad esempio, mostra di conoscere la pasta secca conservata e la ammette in caso di necessità. Anzi sostiene che, se ben fabbricata, si possa conservare anche due o tre anni. Tuttavia non sembra considerarla un consumo abbastanza elevato per la sua cucina. E di fatto la pasta fresca e la pasta secca continueranno a svilupparsi parallelamente nella tradizione gastronomica italiana con ottimi risultati fino ai giorni nostri. Certo la pasta di grano duro non si prestava tanto a essere cucinata stracotta, come era usanza dell’epoca, colorata di zafferano e addizionata di zucchero e cannella con la scusa di renderla più digeribile. La pasta fresca di grano tenero al contrario sì; spesso cotta in brodi grassi o ragù, veniva usata quasi fosse un addensante o un complemento della ricetta, non certo un elemento essenziale. Questo mentre, nel frattempo, si faceva un grande trasporto di pasta secca per tutto il Mediterraneo occidentale, dalla Sicilia a Genova, dalla Sardegna ai porti spagnoli – all’epoca l’isola era una provincia catalana – e i Genovesi s’industriavano prima a inserirsi nel commercio e poi a mettersi a fabbricarla direttamente. Comunque il famoso inventario notarile del lascito testamentario del soldato genovese Ponzio Bastone che annotava nel 1279 tra i pochi beni una “barixella plena de maccaroni” ci conferma da un lato che la pasta era oggetto di commercio – i capitani delle navi potevano addirittura trattenersi una parte del carico per sfamare l’equipaggio – dall’altra ci informa sulla “confezione” usata. Viene da chiedersi chi mangiasse tutta questa pasta se i cuochi dei nobili sembrano snobbarla. L’ipotesi che fosse prevalentemente riservata a un consumo popolare, nonostante il prezzo relativamente elevato, è confermato da indizi come il fatto che nel 1371 la pasta di semola veniva inserita nel calmiere dei prezzi di Palermo, quasi a mantenerla alla portata della classe meno agiata. Di fatto il commercio di pasta sembra svilupparsi all’epoca soprattutto tra le popolazioni di ceto medio dei contesti urbani.
QUANDO LA PASTA USCÌ DAL BRODO
Quello in cui la pasta uscì dal “brodo” è il momento essenziale della storia. Perché solo in Italia la pasta rappresenta un piatto a sé stante, non un contorno o un semplice ingrediente del piatto. La grande differenza con le tradizioni di consumo delle altre paste nel mondo è che per noi la pasta è asciutta, ha una sua dignità di ricetta e non si consuma immersa in brodi vari, vegetali o misti con carne, più o meno “sciacquati” all’uso orientale. E neppure pallida e scondita, separata da carni e verdure che la insaporiscono. La nostra pasta a un certo punto della storia diventa asciutta, più o meno condita, ma comunque un “primo piatto”, quando non un piatto unico. In comune resta però una consuetudine con altri popoli, il che forse spiega la facilità con cui viene accettata nelle diverse culture culinarie: la pasta resta un consumo popolare, così che un tempo anche da noi era annoverato tra i cibi di strada, come il ramen giapponese, fatto di sottili fili di pasta fresca in brodo che veniva acquistato dai lavoratori più umili nei baracchini di strada in tazze di brodo bollente. Forse più gli spaghetti che altri formati rappresentano la vocazione popolare della pasta italiana, spesso testimoniata dalla cinematografia del dopoguerra. Chi non ricorda il banchetto di Totò che si abbuffa di spaghetti al pomodoro mangiandoli con le mani in “Miseria e nobiltà”? O l’immagine di Alberto Sordi che promette di distruggere un piatto di spaghetti in “Un americano a Roma”? E la sequenza di pochi anni dopo di un divertente Jack Lemmon che scola gli spaghetti sulla racchetta da tennis in “L’appartamento”? Certo queste scene hanno valso alla pasta italiana una pubblicità più efficace di qualunque spot successivo, fatto salvo quello dei “Rigatoni” girato da Federico Fellini per la Barilla negli anni ‘70.
SEMPRE PIÙ POPOLARE
In realtà ciò che differenzia la tradizione tutta italiana della pasta secca è proprio l’infinita gamma di preparazioni che si sono sedimentate nel tempo. Ciò che consente da un lato una così ricca plasticità delle forme e dall’altro una perfetta aderenza ai gusti regionali attraverso l’uso di ingredienti locali è proprio la materia prima di base, il grano duro. Infatti per farla asciutta e al dente occorre questo ingrediente fondamentale, oltre a una tecnologia industriale che si è sviluppata solo a partire dal XIX secolo e non si è più arrestata. Resa estremamente serbevole grazie all’essiccazione, la pasta di grano duro ha trovato in origine nel sud Italia le condizioni ambientali naturali di aria e calore per essere realizzata, ma solo con l’industrializzazione è partita alla conquista del mondo. Come sempre, per renderne conveniente la produzione industriale occorrono economie di scala, prodotti di qualità costante e soprattutto un mercato sconfinato che la pasta ha avuto fin da subito. Non entriamo qui nella polemica grani duri italiani, grani duri stranieri che rimandiamo a un articolo successivo di questo numero, ma il fatto innegabile è che ci abbiamo messo del nostro, in creatività e ingegno, per inventare questo cibo straordinario che riesce a penetrare nell’immaginario gastronomico di qualunque altro popolo. Come la pizza, la pasta italiana ha saputo sposare con disinvoltura ingredienti locali che a noi farebbero inorridire. Poco importa, vuol dire che noteranno la differenza quando mangeranno un piatto fatto meglio. E se ne innamoreranno. Di fatto, per tutti i popoli la pasta, soprattutto di grano duro, ha sempre rappresentato dapprima un alimento economico e nutriente, per gli Italiani del dopoguerra come per i nuovi consumatori russi di oggi – pare che il 94% di loro consumi pasta – per riuscire a diventare poi un consumo sofisticato e di tendenza con l’evolversi del gusto. Così oggi, mentre la richiesta internazionale di prodotto italiano è in crescita, gli Italiani sembrano un po’ meno affascinati dalla pasta secca e un po’ più orientati alle paste fresche oppure ad acquistare la pasta e il condimento già pronto. Si va di fretta… Ciò non toglie che siano ben disposti a meravigliarsi al ristorante davanti a un piatto di pasta di grano duro di marca, magari monograno, preparata con estrosi accostamenti da un cuoco di grido. È il segno dei tempi.