Gastronomia L'altro territorio

Pecorino Toscano, compagno di vita

In Toscana lo chiamano semplicemente “cacio”: è un formaggio da tavola, fresco o stagionato, protagonista della nostra tradizione gastronomica, di cui si hanno testimonianze fin dal 5000 AC. Da anni esistono associazioni o consorzi più o meno dinamici, ma quello sicuramente più importante e conosciuto è il Consorzio del Pecorino Toscano DOP…

Carlo Macchi Novembre 2022
Pecorino Toscano, compagno di vita

Alzi la mano chi non ha mai mangiato una fetta di Pecorino toscano! Sono convinto che non vedrei neanche una mano alzarsi e tra i nostri lettori tutti, prima o poi (parecchi sia prima che poi) l’hanno gustato, sia viaggiando nelle nostre terre sia comprandolo a casa loro in negozi di alimentari o nei supermercati.
In effetti è uno dei formaggi più famosi e dalle nostre parti è molto di più di un prodotto alimentare; è un compagno di vita, un punto fermo su cui scandire pranzi, merende e cene. Nelle frasi “Dammi una fetta di cacio” o “Bono quel cacio” il cacio è sempre, soggetto nemmeno tanto sottinteso, il Pecorino toscano, da sempre al fianco di noi toscani.

Cominciamo con un po’ di storia
Da sempre al nostro fianco non è un modo di dire. L’allevamento della pecora nelle zone rurali della Toscana ha origini molto antiche. E se ne hanno testimonianze fin dal 5000 AC. Accertato questo, facciamo un salto di qualche millennio e arriviamo agli inizi del Rinascimento con Enea Silvio Piccolomini che nei suoi “Commentarii” parla di un cacio (vedete?) trovato a Chiusure, nella parte sud delle Crete Senesi, definito dal futuro Pontefice Pio II particolarmente delicato e buono. Attraversando altri secoli a volo d’uccello arriviamo a un documento del 1813 conservato a Trequanda, dove si conferma che il latte di ovini (e caprini) non è usato per bere, ma per produrre formaggi.
Ai primi anni del ‘900, dopo che il commercio in Europa era consolidato da tempo, il Pecorino toscano, grazie forse ai molti emigrati, iniziò a essere esportato anche negli Stati Uniti.
La seconda guerra mondiale dette una brusca frenata alla produzione e alla commercializzazione del pecorino, che rimase un prodotto “familiare”, per i soli mezzadri e pochi altri fortunati, fino agli anni ’60.
Nel decennio 1960-1970 la Toscana assistette a una immigrazione di pastori sardi (prima con le sole pecore, poi con le famiglie) soprattutto in provincia di Siena e in Maremma, con terreni ed essenze adattissime alla pecora sarda. Questi pastori non si sognarono nemmeno di andarsene con la fine della mezzadria ma, in molti casi, subentrarono nei poderi lasciati dagli ex mezzadri toscani. Con i sardi, come detto, arrivarono le pecore sarde.
Ma prima della Sarda che razze c’erano? Soprattutto Garfagnina, Sopravissana e Appenninica.
Quindi la produzione toscana da allora si appoggia per una buona fetta su pecore sarde e su pastori sardi. Questo non vuol dire che le altre razze, comprendendo anche la Comisana e la Massese (grande produttrice di latte quest’ultima) siano state escluse dalla produzione, tutt’altro.

Come si fa il Pecorino toscano
Una volta munto il latte cosa succede? Per produrre Pecorino toscano i metodi di lavorazione sono principalmente due, quello con il latte pastorizzato e quello a latte crudo.
Il metodo più diffuso è quello della pastorizzazione, che significa portare il latte alla temperatura di 72°C per circa 15 secondi. La pastorizzazione è una tecnica attuata nella stragrande maggioranza dei casi.
La pastorizzazione si effettua, naturalmente, dopo aver aggiunto al latte il caglio. Il caglio è un prodotto enzimatico che può essere di derivazione animale, vegetale o chimica. Il caglio animale deriva dall’abomaso o quarto stomaco dei ruminanti lattanti, vitelli principalmente, ma anche da agnelli e capretti. Il caglio in particolare ha un enzima, la chimosina, che produce la coagulazione del latte. Esiste anche un “caglio vegetale”, che può essere estratto dai fiori di cardo, ma anche dalle foglie di fico o dai fiori di carciofo selvatico. Veniva usato molto in passato, viste la sua facile reperibilità nei campi. Personalmente è quello che preferisco, ma oggi non viene quasi più usato perché ne occorrerebbe moltissimo viste le quantità di formaggio prodotte. Inoltre secondo molti il processo di estrazione non darebbe sufficienti garanzie igieniche.
Il caglio però si può anche produrre modificando alcuni microorganismi per indurli a produrre direttamente la chimosina, ma si entra nella chimica e credo siate più interessati alle varie fasi di lavorazione.
Dopo l’aggiunta del caglio e la formazione della cagliata, quest’ultima va rotta in pezzetti di diverse grandezze a seconda del tipo di pecorino che si vuole fare. Di solito sono grossi come una nocciola per i formaggi freschi e come un chicco di mais per quelli stagionati. Dopo la rottura, il prodotto va compattato e messo in recipienti per uso alimentare, che poi daranno la forma e la grandezza al formaggio. Questa fase è importantissima per due motivi:
1 – per ottenere un Pecorino ben compatto;
2 – perché durante questa fase si elimina il siero, da cui si ottiene la ricotta. In passato “le forme” erano di vimini, oggi sono di plastica, più pulite, ma meno poetiche.

Dalla salatura in poi
La fase successiva è quella della salatura, che può essere fatta in due modi, in salamoia o a secco. La prima avviene in una vasca con acqua satura di sale; la seconda cospargendo di sale la forma dall’esterno. La salatura, in entrambi i modi, dura circa 24 ore, dopo di che la forma viene sciacquata e/o ripulita e messa a stagionare.
Durante la stagionatura si formano muffe, in genere sono una buona cosa, nel senso che quelle più comuni sono asciutte e non modificano lo stato esterno del formaggio (dopo che sono state asportate), fanno stagionare il formaggio più lentamente e lo mantengono più morbido
La muffa inizia a formarsi nella prima settimana, ma questo dipende dall’ambiente: più umido è più le muffe arrivano in fretta.
Lasciamo stagionare il formaggio pastorizzato e passiamo alla lavorazione a latte crudo, il che vuol dire, dopo aver aggiunto il caglio, scaldare al massimo a 36°. Importante per questa lavorazione far intercorrere il minor tempo possibile tra la mungitura e l’inizio del processo. Rispetto al formaggio pastorizzato quello a latte crudo perde meno aromi per il riscaldamento del latte e mantiene una maggiore “vicinanza aromatica e gustativa” alla zona di produzione. Di solito i Pecorini a latte crudo sono migliori dei pastorizzati, ma bisogna anche dire che oggi non sono molti i produttori di Pecorino che utilizzano il latte crudo e – se lo fanno – usano riscaldano il latte fino a 58-60° per pochi secondi.
Torniamo al discorso stagionatura: mediamente un Pecorino fresco deve stagionare almeno 20 giorni, ma per avere un buon risultato è meglio superare i 30-35 giorni. Per lo stagionato si deve andare oltre i 120 giorni, ma anche in questo caso sarebbe giusta regola superare ampiamente i 150-160 giorni. Tra i 35-40 e i 120 giorni siamo nel regno del semi-stagionato. Oltre i 180-200 giorni il Pecorino toscano è comunque buono, ma il consiglio, nel caso di lunghe stagionature (attorno all’anno e oltre), è quello di ricercare pecorini di forme più grandi, anche doppie o triple rispetto al normale, che di solito si attesta in 10 cm di altezza e 17-19 di diametro.

Come si riconosce e si gusta un Pecorino buono
Capire se un Pecorino è buono è abbastanza semplice e può essere divertente e sicuramente utile. La prima cosa da fare è… guardarlo.
A una prima occhiata già si capiscono molte cose: se la crosta risulta molto scura è probabile che il pecorino sia stato stagionato utilizzando la morchia (alias depositi di olio vecchio) dell’olio extravergine d’oliva e carbone vegetale, trattamento utilizzato soprattutto per la tipologia “stagionato”, mentre sul semi-stagionato spesso troviamo trattamenti fatti a base di conserva di pomodoro, facendo assumere alla crosta un colore scuro profondo. C’è poi anche chi stagiona il Pecorino nelle foglie di noce (ve li consiglio), con buccia più scura, ma meno oleosa rispetto a quella del mix morchia/carbone.
Capito se il vostro “cacio” sia fresco o stagionato, dovete tagliare la forma e la prima cosa da guardare è l’occhiatura, cioè i forellini più o meno grandi presenti nella pasta. Questi sono dovuti a normali fermentazioni. Attenzione! Se oltre all’occhiatura vi sono delle fenditure o degli strappi, il formaggio è stato stagionato male e quindi probabilmente non è di alta qualità.
Normalmente l’occhiatura, che si trova difficilmente nello stagionato, è comunque sempre molto contenuta, poco estesa e di piccole dimensioni. Quei Pecorini che sembrano butterati fateli mangiare ad altri.
Passiamo allo spessore della crosta, la cosiddetta unghia, cioè quella parte di formaggio subito sotto la buccia. Lo spessore dell’unghia è di solito proporzionato alla stagionatura e all’età del formaggio, ma deve essere sempre molto sottile.
A questo punto annusiamo il nostro formaggio, per qualche secondo, spezzando una fetta sotto il naso. Se l’odore è intenso bene, se lo è meno… meno bene. Deve profumare di latte da giovane e andando avanti col tempo può virare verso aromi vegetali, floreali o speziati.
Ora mettiamone un pezzetto in bocca masticandolo lentamente, stando attenti alla consistenza, che deve essere il più possibile la stessa tra centro e parte esterna. Più sarà vecchio meno sarà elastico, ma l’importante è che non sia granuloso o troppo gommoso.
A questo punto, se “l’esame” vi ha soddisfatto, potete mangiarne quanto volete, sempre accompagnato dal pane toscano, quello senza sale.

Il Pecorino toscano Dop e le tipologie più famose.
Da anni esistono associazioni o consorzi più o meno dinamici, ma quello sicuramente più importante e conosciuto è il Consorzio del Pecorino Toscano DOP. I suoi associati producono sia Pecorino fresco che stagionato, utilizzando sia latte crudo, pastorizzato o termizzato. Dal mio punto di vista, non volendo discutere sulla qualità finale dei prodotti, il fatto che per disciplinare il latte possa venire anche da alcune provincie limitrofe di Umbria e Lazio “annacqua” un po’ la toscanità del prodotto.
Parlando di Pecorino non si può non accennare al Pecorino delle Crete Senesi o Pecorino di Pienza, forse uno dei più conosciuti e apprezzati, come ad alcuni Pecorini maremmani, in particolare a lunga stagionatura e di grandezza uguale a quella del Parmigiano. Tutti Pecorini che mi fanno partire la salivazione a mille, come mi fanno arrabbiare a mille tanti Pecorini anemici che si trovano nei supermercati e da cui spero, riconoscendoli grazie a quanto vi ho detto, vi terrete lontani.
Chiudo con un consiglio assolutamente personale: non acquisto e non faccio mettere mai un Pecorino sotto vuoto: il pecorino ha bisogno di respirare come noi, e se non ci riesce “qualcosa muore” e qualcosa cambia nel gusto. Non provate per credere.

Il Pecorino toscano visto dal nutrizionista
Grassi e colesterolo. Il latte ovino contiene circa il doppio di lipidi rispetto al latte vaccino e caprino, ma questo non influisce nella quantità di grassi del prodotto finito: il Pecorino stagionato ha la stessa percentuale di grassi del Parmigiano stagionato ed è un’ottima alternativa a quest’ultimo siccome presenta caratteristiche molto simili.
Intolleranza al lattosio: il Pecorino toscano ne contiene in tracce, soprattutto il prodotto a pasta semidura, che viene stagionato almeno 4 mesi come da disciplinare di produzione. Il prodotto fresco, stagionato almeno 20 giorni, ne contiene in percentuale maggiore.
Quanto mangiarne? La porzione consigliata per l’adulto è di 50 g e il valore nutrizionale che lo caratterizza è l’elevato contenuto di vitamina A, calcio e fosforo. Inoltre contiene quasi il 30% di proteine.
Donne in gravidanza: il prodotto è sicuro. Non rappresenta un substrato favorevole per la Listeria monocytogenes, indipendentemente dal fatto che la materia prima sia latte crudo o pastorizzato.
(A cura di Ilaria Goria – Biologa nutrizionista).

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