Da decine di secoli il vino è uno degli elementi portanti della cultura del bacino mediterraneo, così come per molti popoli delle regioni caucasiche.
L’atteggiamento consumistico della società contemporanea ha però trasformato la percezione di questa bevanda alimentare.
Questo sta accadendo soprattutto nei cosiddetti “mercati emergenti”, dove alcune bottiglie di vino sono diventate icone di lusso.
Come si sta evolvendo il consumo di vino? È possibile trasmettere elementi culturali ai consumatori dei nuovi mercati?
VOCAZIONE ESTERA
Il vino “italiano” ebbe da subito la vocazione all’esportazione. Testi di epoca romana, confermati dai ritrovamenti archeologici di dolia, ci portano a conoscenza di un’organizzazione strutturata che commerciava il vino prodotto nella penisola italiana con i mercanti di altre province dell’impero. Duemila anni dopo, i primi due politici a ricoprire il ruolo di Presidente del Consiglio del Regno d’Italia (il Conte Camillo Benso di Cavour e il Barone Bettino Ricasoli) credettero con passione che il vino potesse diventare uno dei pilastri dell’export agricolo italiano.
In epoca contemporanea i primi a organizzarsi attivamente per trovare distributori esteri furono alcuni produttori vinicoli di Piemonte, Toscana e Veneto. Si trattava di veri pionieri: percorrevano migliaia di chilometri con le bottiglie di campione nel bagagliaio e compivano pure qualche viaggio a New York.
Il vino non apparteneva alle radici culturali dei nuovi consumatori nordeuropei e americani. Eppure ebbe un crescente successo. Al fascino “esotico” del prodotto importato si associava anche la sensazione di potersi appropriare di una parte genuina di cultura italiana. In fondo la bottiglia di vino importata era davvero “un pezzo di Italia”, ancora più di una ricetta proposta dai ristoratori italiani del posto. C’era inoltre un elemento di affermazione economica: le bottiglie di vino importato erano un bene voluttuario e costavano parecchio. La borghesia benestante familiarizzò presto con un nuovo status symbol: il consumo di vino.
Negli anni Duemila, il mercato del vino italiano è ormai costituito da tutte le nazioni dell’Europa Occidentale e dal Giappone. Si inizia a esportare anche in Corea, in qualche città-stato del Sud Est Asiatico, in Brasile e Russia. Sono gli anni in cui si utilizza l’espressione “nuovi mercati”. La stessa espressione oggi in uso per indicare i mercati di Cina e alcune nazioni africane. Quali fattori inducono un consumatore dei “nuovi mercati” alla scelta di una bottiglia di vino?
SOTTO GLI AUSPICI DI CAVOUR E RICASOLI
Il Direttore generale di Assoenologi, Giuseppe Martelli, ricordava in una intervista di qualche anno fa che anche in Italia “ … ormai da tempo il vino non è più considerato un genere alimentare bensì un genere voluttuario … che contribuisce a migliorare la qualità della vita”. Aggiungeva poi che, soprattutto per le nuove generazioni, “… il consumo del vino è un piacere legato a storia, cultura e tradizioni del nostro Paese”. Sui cosiddetti “nuovi mercati” invece il consumo di vino importato compare all’improvviso. Il vino non era mai esistito prima nell’alimentazione quotidiana. In Corea come in Russia, in Cina come in Nigeria, non c’era mai stato prima un reale bisogno del vino (italiano, francese o australiano che fosse). In queste nazioni, le molle che hanno stimolato la domanda di vino importato sono state: il fascino del prodotto straniero e la possibilità di esibire le proprie capacità di spesa. Sono gli elementi di esclusività e di status symbol ad aver definito le caratteristiche della fascia di consumatori, il cosiddetto target.
I mercati emergenti sono stati una vera benedizione per la bilancia commerciale italiana e avverano gli auspici del Cavour e del Ricasoli: il vino rappresenta oltre il 4% delle esportazioni italiane di beni di consumo, con un valore annuo di circa 5 miliardi di Euro. Ma c’è un elemento che rischia di diventare problematico, proprio per il fatto che una crescente parte delle esportazioni di vino italiano è destinata a mercati che non sostengono tale consumo con una formazione culturale. Quante volte si tratta di un acquisto consapevole? Quante altre volte i nuovi consumatori si “bevono” invece soltanto un’etichetta?
PAESE CHE VAI…
Se il vino non appartiene tradizionalmente a una nazione e alla sua cultura, allora questo nuovo bene di consumo si inserisce nelle già consolidate consuetudini e tradizioni. Analizziamo il contesto di tre mercati.
In Cina e nei paesi influenzati dal confucianesimo fare un regalo indica che si è intenzionati a costruire un rapporto interpersonale. E il vino, soprattutto rosso, è in questo momento il best-seller della regalistica nel nuovo e consumistico “Celeste Impero”. Lo scambio di doni non avviene solo in occasione del Capodanno cinese (il momento di picco per l’acquisto del vino in Cina). Il vino, come regalo, è usato in buona parte degli incontri d’affari, così pure per ammorbidire le posizioni dei tanti burocrati. Molte grandi aziende e alcuni Ministeri dispongono di una persona preposta alla selezione dei regali da fare a ciascun livello dell’organigramma (e le aziende cinesi che contano oltre 100.000 dipendenti sono molte!). È quindi chiaro come la stragrande maggioranza dei cinesi non beva il vino che ha acquistato. Quando un cinese sceglie un vino ripone nella bottiglia scelta (e nella sua confezione) la speranza di fare bella figura. È quindi probabile che scelga vini costosi o facilmente percepibili come esclusivi.
In Russia il vino viene invece acquistato anche per uso personale. In questo caso si sprecano gli aneddoti – verosimili o ingigantiti dal passaparola – di signori benestanti che amano scegliere il vino verso le ultime pagine della carta dei vini: le pagine dove le etichette presentate hanno il listino a due o tre zeri. Purtroppo però, non tutti hanno una cultura enoica sufficiente per apprezzare i tesori enologici acquistati. Nella tradizione russa, inoltre, non ci si presenta mai a casa di qualcuno senza prima aver acquistato un regalo; molto spesso una bottiglia di vino che verrà condivisa. Di nuovo il valore, reale o percepito, è un fattore determinante nella scelta di un vino per il consumatore russo.
In alcune nazioni africane il consumo di vino importato sta crescendo. Oltre ai consumi generati dalla ristorazione, si deve tenere conto anche di un altro importante fenomeno sociale. Si tratta delle riunioni familiari, solitamente in occasione di matrimoni e funerali, cui partecipano le molte e numerose famiglie di parentela diretta e correlata. I banchetti possono essere più di uno e prolungarsi per diversi giorni. Si tratta di momenti sociali molto complessi, non sempre pienamente compresi dallo sguardo occidentale. In queste occasioni la famiglia ospitante ha modo di dimostrare ai parenti e a tutta la comunità la propria capacità di spesa. La scelta dei vini (evidentemente grandi quantità) tiene in questo caso conto di due fattori: la percezione di esclusività di un marchio e la bellezza estetica della bottiglia.
Pochi esempi, contestualizzati, per una riflessione. Come evitare che nel mondo beva sempre più vino italiano scelto in considerazione del solo valore di listino o dei canoni stilistici di una etichetta?
RESPONSABILITA’ E OPPORTUNITA’ PER IL SISTEMA
A chiunque lavori con passione nel settore del vino italiano non è sufficiente osservare il positivo incremento del dato statistico delle esportazioni. Proprio perché il vino è cultura radicata nel nostro patrimonio dobbiamo di lavorare per una vera operazione di rappresentanza culturale.
Che piaccia o meno, una parte del vino italiano è entrata nella spirale consumistica di molti mercati. Diventa d’obbligo, per chi produce, tenere conto dell’impatto estetico delle proprie etichette sul mercato globale. Poiché alcuni vini italiani vengono scelti in prima battuta per l’emozione che suscitano marchio e veste grafica, c’è il rischio che alcuni produttori investano più risorse nella ricerca di un “vestito adatto” che nel contenuto. Alcune aziende industriali sono note all’estero per il loro packaging. Non vorremmo però diventare soltanto degli esportatori di elementi estetici o di imballaggi – settore in cui il made in Italy vanta comunque primato di eccellenza.
Nelle piccole cantine, spesso, familiari e pochi collaboratori vivono in prima persona le diverse fasi della promozione sui mercati mondiali. Qualcuno in famiglia partecipa a cene di promozione presso i ristoratori in giro per il mondo, oppure a seminari di formazione a favore dei distributori. Qualcun altro rimane in azienda, pronto a ricevere enoturisti o delegazioni commerciali straniere in visita.
E che soddisfazione poter condividere con i nuovi consumatori le informazioni in merito alle varietà autoctone, al territorio e le proprie tecniche di vinificazione! Attraverso la sua bottiglia di vino ogni produttore ha l’opportunità di valorizzare la nostra gastronomia e la nostra storia. Il riflesso è positivo per tutte le imprese collaterali nate nei distretti del turismo enogastronomico. Attraverso le sue attività il vignaiolo diventa un vero e proprio ambasciatore.
È una grande opportunità per i singoli produttori e per l’intero “sistema vino italiano”. È anche una grande responsabilità per le associazioni di categoria e i consorzi di tutela e promozione. Sui “nuovi mercati” il vino italiano si è conquistato una posizione di status symbol. Come tale va supportato con azioni mirate di promozione e valorizzazione, con elementi concreti che trasmettano non solo emozione, ma anche cultura.