Il binomio del vitigno Dolcetto con la terra collinare di Ovada e di altri 21 paesi ai piedi dell’Appennino Ligure oggi regala due prodotti, il Dolcetto di Ovada Doc e l’Ovada Docg: due progetti e due stili di una medesima terra e di una stessa professione. Due opportunità di piacere per un consumatore avveduto e curioso.
“Il vino Dolcetto non ha nessun personaggio illustre come padrino: è vino unico; è il vino che da sempre ha accompagnato e accompagna l’uomo delle Langhe, intendendo per Langhe le colline anticamente delimitate dal Tanaro da una parte e dall’Orba dall’altra.” Così scriveva nel libro Guida ai Vini del Piemonte (1977) uno dei cantori più qualificati del vino Dolcetto, Renato Ratti, tecnico prezioso del mondo vitivinicolo della seconda metà del Novecento.
E poi proseguiva: “Per centinaia di anni ha consolato o allietato la vita quotidiana degli abitanti di Acqui, Alba, Dogliani, Mondovì, Ovada e delle colline intorno, conquistando, a partire dal 1700, anche quelli delle pianure vicine, quando in queste zone cominciò la specializzazione delle coltivazioni (frumento e foraggi) e vennero abbandonate le vigne poco remunerative.”
Questo è il quadro generale in cui il Dolcetto – vite e vino – preferisce operare: i terreni calcarei e compatti e un clima mai troppo caldo e con generose escursioni tra inverno ed estate e tra giorno e notte.
Ovada è Dolcetto, sotto tutti i punti di vista. Sia quando appare giovane e fragrante con il “Dolcetto di Ovada Doc”, sia quando si fa più ricco e austero come “Ovada Docg”. Ha il diritto di appartenere a quel gruppo di vini … prodotti alla destra del fiume Tanaro in una sequenza di colline che partono da Mondovì e vanno fino ai piedi dell’Appennino Ligure verso la provincia di Genova.
Preziosi riferimenti storici
Il binomio tra il Dolcetto e il territorio ovadese è antico. I riferimenti storici a questa varietà e alla sua coltivazione sono frequenti nella zona attuale del Dolcetto di Ovada. Al proposito è interessante la lettura dello scritto del Prof. Giuseppe Rocca, Ordinario di Geografia all’Università di Genova e Milano, “Per una storia della vitivinicoltura nell’Oltregiogo” (2012) e del libro “Alessandria provincia vinicola” (2009), edito dalla Provincia di Alessandria.
Secondo Rocca lo sviluppo della viticoltura nell’Ovadese segna i primi, interessanti sviluppi tra il secolo XII e XIV grazie alla colonizzazione cistercense. In quel periodo, “nei pendii più assolati e meno acclivi provvede a un certo sviluppo della viticoltura, come nel caso dell’Alta Val d’Orba, dove l’abbazia di Tiglieto, come risulta da alcuni documenti del XII-XIII secolo ancor oggi conservati nelle Carte di quel monastero, che contengono frequenti riferimenti a donazioni di devoti all’Abbazia, fra cui vigne, vigne con alberi e vino.”
Già nella seconda metà del ‘400, i terreni vitati acquisiscono importanza come le altre colture: la conferma ci viene da “un atto rogato in Ovada il 16 aprile 1463, relativo a una sublocazione di tutti i beni della Chiesa di San Martino extra muros, contenente una serie di preziosi riferimenti alla coltivazione della vite, da cui si comprende che per infoltire le viti nei punti in cui alcune di esse erano seccate o erano state asportate dolosamente, doveva essere scavato un fosso per interrarvi un tralcio della vite vicina, da cui si sarebbe originata una nuova vite” secondo la pratica della propaggine.
La coltura viticola nell’Ovadese è ampia nel Cinquecento, soprattutto in collina, come conferma lo studio di Giorgio Doria (1968): “nel 1567, un suo avo acquisisce il feudo di Montaldeo… con 60 ettari di superficie agraria, di cui 14 a bosco, 10 a prato, 24 a campo e 12 a vigna.”.
In alcune aree si rivela determinante l’attività di casati nobiliari, che innescano un certo progresso tecnico in vigna e in cantina. È il caso dei marchesi Doria nel feudo di Montaldeo, dove tra il secolo XVI e XVIII la vite aumenta la sua presenza e gli impianti sono realizzati con scasso profondo, i filari ravvicinati, le piante allevate alte e si comincia a parlare di concimazione e lotta contro le Nottue (le “gatte” in piemontese).
Per l’Ottocento, fonte preziosa è la “Statistica del dipartimento di Montenotte”, scritta dal conte Chabrol de Volvic. Tra il 1806 e il 1812 è stato prefetto di tale dipartimento, che includeva anche il Cantone di Castelletto d’Orba con i territori di quel comune e quelli vicini sulla sponda destra dell’Orba (Montaldeo, Silvano, Mornese, Tagliolo, Casaleggio, Lerma e Belforte) e due su quella sinistra (Rocca Grimalda e Carpeneto). Descrivendo il territorio lo Chabrol dice che “le sue valli, abbastanza piacevoli e non troppo fertili, sono circondate ad est e a sud dai monti della Liguria, e sul versante opposto da colline coperte di vigneti” e vi si produce molto vino.
Personaggio importante nella storia del Dolcetto ad Ovada è il conte Giorgio Gallesio, origini liguri e autore de “La Pomona italiana”. A spingerlo a frequentare l’Ovadese contribuì il matrimonio del figlio Giovanni Battista con la figlia del conte Ferdinando Piuma di Prasco. Nella “Pomona” è prodigo di informazioni sul territorio. Definisce il Dolcetto “Vitis Vinifera Aquæstatellænsis” (Aquae Statiellae era il nome latino di Acqui, n.d.r.) e ne sintetizza così i caratteri: “il più precoce dei vitigni, con racemo medio, semplice, oblungo; acino rotondo, piccolo, nero con picciolo rossastro; vino rosso purpureo, tenue e morbido, facilmente digeribile, pronto”. Ricorda che in gergo è chiamato “Uva d’Acqui” o “Dolcetto di Monferrato”.
Quanto al vino, apprezza assai quello dell’Ovadese: “I più stimati sono quelli di Ovada e dei suoi contorni, cioè a dire, di tutte le colline che formano il piede dei contrafforti settentrionali dell’Appennino da Novi sino a Nizza della Paglia, e anche sino ai colli del territorio di Alba”.
Nel 1875, Pietro Paolo Demaria e Carlo Leardi pubblicano un saggio con molte informazioni sulla vitivinicoltura alessandrina. A proposito del Dolcetto, allora denominato in alcune parti (Novese e Tortonese) anche Nebbiolo, scrivono: “Nella linea dei colli, che dalle regioni circostanti ad Ovada si protende fin presso Nizza di Monferrato, il suo prodotto raggiunge maggior perfezione e se ne ottengono non solo vini da pasto, ma eziandio fini”.
Giuliano Tamburelli, nel 1879, realizza per il comune di Novi una relazione sul territorio per valutare le condizioni in cui versava la campagna del circondario. Se ne desume che la vite è la principale risorsa agricola locale, essendosi diffusa “al piano, al colle e al monte”. In particolare si legge che i vitigni prevalenti, “nei Mandamenti di Ovada, Castelletto e Gavi, sono il Nebbiolo (Dolcetto), nella massima parte, per i nove decimi del territorio, e per l’altro decimo, Timorasso e Cortese”.
Nell’Ottocento è utile poi l’opera di Luigi De Bartolomeis “Notizie topografiche e Statistiche sugli Stati Sardi” (1847). Sulla Provincia di Acqui che includeva in gran parte l’Ovadese scrive: “La parte montuosa, o disseminata di monticelli, che costeggia la sinistra della Bormida dal lato occidentale, limitrofo colla provincia d’Alba, porta il nome di Langhe, ed è la più sterile di cereali prodotti, per cui gli abitatori sono costretti a procurarseli dalle terre vicine più opulenti dell’Alessandrino. Vi sono ciò nonostante in questa provincia belle pianure e deliziose colline, dove raccolgonsi in abbondanza uve, castagne, frutta diverse, ed anche grani, legumi, e bachi da seta in discreta quantità, e vi si fanno ottimi vini”.
Concludiamo l’escursus storico citando l’Annuario Vinicolo (1933-34) pubblicato da Arturo Marescalchi. A proposito della “Zona del Dolcetto” della Provincia di Alessandria scrive: ”La coltura più intensa di questo vitigno si riscontra ad Ovada, Rocca Grimalda, Molare, Acqui, Montabone, Rocchetta Palafea. Per la sua precocità questo vitigno è coltivato nelle zone più alte della Provincia”.
La collina come denominatore comune
La collina caratterizza in modo trasversale la viticoltura piemontese, ma nell’Ovadese assume talvolta caratteri di particolare asperità.
Buona parte del territorio d’origine del Dolcetto insiste sulle propaggini appenniniche a nord di quello che oggi rappresenta lo spartiacque tra Liguria e Piemonte, ma che fino alla fine del settecento rappresentava il retroterra di Genova; territorio influenzato per secoli dalla Repubblica marinara, amministrato dalle nobili famiglie genovesi che lo hanno disseminato di castelli e residenze gentilizie ancora oggi abitati come il Castello di Tagliolo o quello di Rocca Grimalda, è stato segnato fin dal Medioevo dalle Vie del Sale, tra il Passo della Bocchetta e quello del Turchino e dai commerci genovesi verso la Pianura Padana e verso il nord Europa.
Percorso da linee d’acqua comprese tra il torrente Lemme a est e l’Orba a ovest, tutte a regime per lo più torrentizio, con periodi siccitosi di magra estrema e altri di piene rapide e alluvionali, l’Ovadese è costituito verso sud da un intreccio di creste collinari che s’innalzano ripide sopra gole profonde – sia l’Orba che il Lemme, nella loro alta valle, hanno scavato veri e propri canyon – e rilievi boscosi tra i quali si fanno spazio faticosamente i vigneti, fino ad arrivare, più a nord, a guardare la pianura da leggeri altopiani anch’essi vitati.
Le strade che salgono e scendono continuamente dalle colline collegano paesi nel tempo caratterizzati dalla viticoltura che, alla sinistra del torrente Orba, vanno a congiungere i loro territori con le zone viticole dell’acquese con le quali condividono la vocazione alla coltivazione del Dolcetto. Una vocazione antica che ha visto popolarsi di vigneti anche le colline più impervie fin dal Medioevo, laddove l’agricoltura dei seminativi e dei pascoli non poteva attecchire per le difficoltà di gestione dei suoli. Solo la costanza e l’abilità di viticoltori abituati alle asprezze della costa ligure, prima i monaci e poi i contadini, hanno potuto mantenere la tradizione viticola su queste colline, in particolare proprio del Dolcetto che, come ricordava il Marescalchi, non teme le zone in altitudine.
Le regole di produzione
Il territorio dell’Ovadese è teatro di due vini a denominazione di origine: il Dolcetto di Ovada Doc e l’Ovada Docg, denominabile anche Dolcetto di Ovada Superiore Docg. Parecchi sono i punti comuni tra i due vini, ma di fatto tra loro c’è uno scarso dialogo, visto che derivano da due distinti provvedimenti legislativi e ciascuno è regolato da uno specifico disciplinare di produzione.
Sono elementi comuni la zona di origine e la base ampelografica. Per il resto, come due separati in casa, sviluppano azioni di sinergia solo se i loro produttori sanno ragionare in termini di territorio. Manca, infatti, lo strumento normativo capace di favorire il rapporto tra i due vini con riflessi concreti sullo sviluppo del territorio. Ne è prova il fatto che la riclassificazione dell’Ovada Docg non può confluire nel Dolcetto di Ovada Doc, ma deve scendere ai piani sottostanti del Monferrato o Monferrato Dolcetto.
Questo denota una strana ostilità dei produttori dell’Ovada Docg verso il Dolcetto di Ovada Doc, un atteggiamento incomprensibile già per il fatto che le maggiori fortune del territorio per ora sono dipese dal vino Doc, il vero elemento di tradizione.
I due vini sono regolamentati da due disciplinari varati il 1° settembre 1972 per il vino Doc e il 17 settembre 2008 per quello Docg.
Queste sono nel dettaglio le principali regole produttive. La zona di origine delle uve è formata in entrambi i casi da 22 comuni dell’Ovadese: Ovada, Belforte Monferrato, Bosio, Capriata d’Orba, Carpeneto, Casaleggio Boiro, Cassinelle, Castelletto d’Orba, Cremolino, Lerma, Molare, Montaldeo, Montaldo Bormida, Mornese, Morsasco, Parodi Ligure, Prasco, Rocca Grimalda, San Cristoforo, Silvano d’Orba, Tagliolo Monferrato e Trisobbio.
La base ampelografica è legata al 100% vitigno Dolcetto. Interessante la precisazione presente nel disciplinare della Doc che consente che nei vigneti siano presenti, fino al massimo del 3%, i vitigni non aromatici idonei alla coltivazione dalla Regione Piemonte: una salvaguardia per il rischio di forniture di barbatelle non in purezza varietale.
Una sola è la tipologia per il Dolcetto di Ovada, mentre sono quattro per l’Ovada Docg: Ovada, Ovada Riserva, Ovada con riferimento della Vigna e Ovada con riferimento della Vigna e Riserva.
Il numero minimo di ceppi per ettaro è di 3.300 per la Doc e 4.000 per la Docg e la resa massima a ettaro è rispettivamente di kg. 8.000 e 7.000. La resa dell’uva in vino è fissata in generale nel 70%.
Per quanto concerne l’invecchiamento, nulla è previsto per il Dolcetto di Ovada Doc, mentre l’Ovada Docg ha una situazione più complessa: 12 mesi dal 1° novembre dopo la vendemmia per l’Ovada tout cours, 20 mesi per l’Ovada con il riferimento alla Vigna e 24 mesi per l’ulteriore specificazione Riserva.
La gradazione alcolica minima è fissata in 11,5% Vol per il Dolcetto di Ovada e 12, per l’Ovada. In entrambi i disciplinari è obbligatoria l’indicazione in etichetta dell’annata di produzione.
Le virtù nel calice
Dire Dolcetto è dire niente del vino che scaturisce da queste colline. Il Dolcetto di Ovada e ancor più l’Ovada Docg, non assomiglia proprio a nessuno. Tanto più non assomiglia a nessuno degli innumerevoli dolcetti che si coltivano qua e là per il Piemonte. I produttori locali pretendono che questo sia “il vero Dolcetto”, ma la nostra impressione è che il Dolcetto, che trova espressioni diverse a seconda dei luoghi in cui viene coltivato, qui ne trovi una decisamente distintiva.
Intenso e fresco nelle annate più recenti, ma già vicino alla confettura di marasca e alla ciliegia sotto spirito, esprime da giovane un palato molto asciutto e decisamente tannico, talvolta con accenni di liquirizia. Con i consimili piemontesi condivide il colore rosso rubino profondo, talvolta brillante, che accenna note granate con il tempo. Ed è proprio con il tempo, almeno tre, quattro o cinque anni – questo farà sobbalzare i teorici del Dolcetto da bere giovane – che rivela una straordinaria complessità olfattiva, fine, elegante, persistente, ricca di note speziate, di cacao e mandorla amara, talvolta perfino di tabacco dolce, che va ben oltre le prorompenti note fruttate. La bocca si fa equilibrata, i tannini composti, la sostanza si armonizza e una precisa persistenza aromatica arricchisce il retrogusto. La nostra sensazione, dopo aver degustato annate dal 2017 al 2003 sia di Dolcetto di Ovada Doc che Ovada Docg, è che questo vino assomigli solo a se stesso e sappia resistere al tempo con un suo personale percorso evolutivo molto interessante.
Complementari sulla tavola
Quando si dice che questa è “terra di confine” non è tanto per dire e la tavola lo rivela subito.
Lunghi secoli di consuetudine con la gastronomia ligure, continui passaggi dal mare alla pianura alessandrina attraverso l’Appennino e viceversa, hanno plasmato una miscela di tradizioni che arricchisce la tavola ovadese: cucina di terra, principalmente, ma con suggestioni marine ricorrenti. Così gli agnolotti piemontesi si alternano ai corzetti liguri con salsa di noci o pesto, il fritto misto sabaudo alla cima ripiena genovese, la carne cruda battuta al coniglio con le olive. Suggestivo punto d’incontro è la passione comune per il merluzzo, servito al verde alla moda piemontese o, più spesso, “accomodato”, cioè stufato e con le patate secondo la ricetta ligure. Insomma una cucina saporosa, legata a profumi e ingredienti tradizionali che i due Dolcetti di Ovada accompagnano senza pregiudizi e con sicurezza anche nei piatti più impegnativi.
Ma anche senza sedersi a tavola, non mancano spuntini golosi che al Dolcetto, magari quello più giovane, si sposano con disinvoltura. A metà tra aperitivo e cibo di strada, da queste parti le focacce tipiche si sprecano, tanto più se farcite con formaggio, olive o patate, ma lo sfizio più praticato è una piccola gloria locale, la farinata di ceci, nell’interpretazione chiamata bela càuda con o senza rosmarino.
I valori economici
Quattro sono i parametri utili a valutare lo stato di salute dei due vini. Cominciamo dalla superficie vitata rivendicata al 31 dicembre 2017: il Dolcetto di Ovada Doc disponeva di 394,86 ettari e l’Ovada Docg 42,21, con il rapporto di 9 a 1.
Il rapporto si sbilancia di più nella produzione effettiva e sale a 14,5 a 1: il Dolcetto di Ovada Doc nel 2017 ha prodotto 1.378.271 litri (1.837.695 bottiglie) e l’Ovada Docg appena 94.597 litri (126.129 bottiglie).
Per quanto concerne gli imbottigliamenti, il riferimento è al periodo dal 1° luglio 2017 al 30 giugno 2018: il Dolcetto di Ovada Doc ha prodotto 1.404.713 bottiglie (il 76,4% della produzione) e l’Ovada Docg ha realizzato 84.185 bottiglie (il 66,7% del prodotto).
Ultimo parametro le giacenze al 1° luglio 2017: per il Dolcetto di Ovada ammontavano a 13.670 ettolitri, pari alla produzione 2017; per l’Ovada Docg rimanevano 2.692 ettolitri, equivalenti alla produzione di 2,84 annate.