“Quando parli con qualcuno di oro nero tra le province di Modena e Reggio Emilia nessuno pensa al petrolio. Nel cuore della food valley italiana, baciata da tanti prodotti gastronomici di assoluto prestigio che spargono la loro fama in tutto il mondo, l’oro nero è uno solo: l’aceto balsamico tradizionale”
Dimenticate le fragole festonate di quella salsina appiccicosa che molti spacciano per balsamico.
Dimenticate i pretenziosi piatti, più o meno creativi, punteggiati di goccette scure tanto decorative quanto inutili che ormai vi propinano dappertutto.
Aprite il naso e chiudete gli occhi, se avete la fortuna di incrociare una bottiglietta di vero Aceto Balsamico Tradizionale di Modena. Lucido, denso, sciropposo, fragrante di spezie dolci e frutta passita, di mandorle tostate e canditi. In perenne, fine, avvolgente equilibrio tra sensazioni dolci e agre, penetrante e lungo, lunghissimo al palato, con quella lieve persistenza amarognola che ricorda la confettura di ciliegie marasche sul finale. Questo e molto altro è l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena: tutto il fascino di un sapore antico e nobile, memoria di gusti rinascimentali che mescolavano sapientemente dolce, salato e acido nelle corti estensi.
Da Columella, autore romano del I secolo d.C. che pare avesse già notato l’attitudine dei mosti del territorio ad acetificare – i Romani avevano una passione per il mosto cotto, chiamato saba, testimoniato anche dal ricettario di Apicio – fino alle Acetaie Estensi ritrovate in una torre del Palazzo Ducale di Modena che documentano già nel Cinquecento le botti organizzate in batteria e il termine “balsamico”, non si è mai perso il piacere di questo balsamo considerato nel tempo tonico, elisir digestivo e integratore alimentare per la sua ricchezza in sali minerali e zuccheri.
Da Napoleone, che vendette parte delle preziose Acetaie Ducali per finanziarsi la campagna italiana a Vittorio Emanuele II re d’Italia che ricevette in dono alcune botti durante una visita e se le portò in Piemonte, l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena ha incrociato la storia e i suoi personaggi restandone sempre all’altezza.
Un processo produttivo unico
È la natura della sua particolare lavorazione che ha un fascino segreto al quale è difficile sottrarsi.
Il mosto ottenuto dalla pigiatura di uve tipiche del territorio modenese – Trebbiano, Ancellotta e Lambruschi, ma anche Sauvignon, Sgavetta, Berzemino e Occhio di Gatta, tutte ottenute da vigneti iscritti alle Doc della provincia di Modena – viene concentrato fino al 50% del suo volume sottoponendolo a cottura in caldaie a cielo aperto, a fuoco diretto e a pressione ambientale (è vietato l’uso di mosti muti o mosti addizionati di qualsiasi sostanza come, ad esempio, l’aggiunta di caramello consentito nella Igp sorella, quella dell’Aceto Balsamico tour court).
La cottura dei mosti diventa spesso una festa tradizionale che ancora oggi si rinnova con dimostrazioni dal vivo e assaggi del mosto in cottura sulle piazze di diversi paesi della zona di produzione come quella che si svolge a Nonantola sul finire di settembre e raccoglie ancora decine di piccoli produttori locali che fanno assaggiare i loro aceti familiari.
Dopo la cottura e un periodo di decantazione il mosto cotto – l’unica base consentita – inizia un processo naturale di fermentazione zuccherina e ossidazione acetica operata da lieviti e acetobatteri.
A questa si fa seguire la fase di maturazione in locali tradizionali di produzione, le “acetaie” che subiscono condizioni ambientali e termiche molto particolari: quando la produzione di questo aceto era solo familiare si trovavano nei sottotetti e nelle soffitte delle case, oggi in locali che ne riproducono le condizioni estreme, esposte alle estati calde e secche e agli inverni freddi e umidi del modenese che sembrano giovare particolarmente agli acetobatteri.
“L’aceto balsamico tradizionale” ci racconta Simone Tintori, giovane produttore, quasi ci verrebbe da dire custode, dell’acetaia La Vecchia Dispensa di Castelvetro “è il prodotto di una sofferenza imposta all’aceto. Portato fuori dalla cantina per imporgli caldo e freddo, costretto in botte per anni e anni…”. Davvero non l’avevamo mai guardato da questo punto di vista.
Piccole botti di legno scuro dedicate alle donne di famiglia
Eppure questa fase dell’invecchiamento è la più caratteristica e nota, perché si svolge tradizionalmente in botticelle affiancate di legni diversi che hanno il compito di cedere all’aceto, di volta in volta, qualche particolare caratteristica: gelso e ciliegio conferiranno note più fresche, floreali, il ginepro sentori resinosi, castagno e rovere sfumature più scure, accenni amarognoli, percezioni balsamiche e vanigliate e così via.
Molto del fascino di questo elisir antico sta in queste serie di piccole botti di legno scuro, dette “batterie” disposte in dimensioni scalari di volume decrescente, dalla più grande alla più piccola, coperte da un lino candido nell’apertura superiore per il passaggio dell’aria. Ogni anno viene spillata una quantità non superiore al 30% di aceto maturo dall’ultima botticella, la più piccola, che viene rimpiazzata da una uguale quantità prelevata dalla precedente e così via fino a risalire alla botte più grande, quella che viene soprannominata “la badessa”.
Sta tutto in un gioco di tempi e di gusti di famiglia il risultato finale, diverso da una batteria all’altra, da un “conduttore” all’altro, perché è proprio il conduttore che determina i tempi di permanenza nelle botti, i travasi e, in definitiva, il gusto finale dell’aceto, quasi come un maître de chais di qualche blasonata cantina d’oltralpe.
“La componente balsamica si fonda sulla sinergia tra il palato del conduttore, l’aceto e i legni che usa” spiega ancora Simone Tintori “se il conduttore cambia si trova a gestire un aceto impostato da qualcun altro. Come lavora quel legno? Solo il conduttore lo sa. Se per caso il nuovo arrivato va ad alterarne l’equilibrio aromatico ci vogliono quattro o cinque anni per rimediare” spiega ancora. “Il legno ha memoria” conclude citando il nonno.
Così il mondo dell’aceto balsamico tradizionale di produzione artigianale resta un mondo patriarcale, molto lontano dalle produzioni industriali che pure, negli ultimi tempi, hanno aperto nuovi mercati al gusto balsamico; qui i passaggi generazionali sono difficili e il compito di un produttore non è solo quello di curare la sua acetaia, ma anche di trovare qualcuno che gli succeda. E soprattutto accettare di passare la mano alle nuove generazioni.
Oro nero
Doc dal 1986 e Dop dal 2000, l’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, deve all’avvocato e agronomo Francesco Aggazzotti, la prima formalizzazione del procedimento per produrre l’aceto balsamico e per condurre una acetaia, tanto che la sua descrizione del 1862 divenne poi la base per la stesura del Disciplinare di Produzione dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena.
Benché il disciplinare di produzione non consenta di dichiarare sulla confezione un qualsiasi riferimento all’annata di produzione sono solo due le tipologie che si possono trovare sul mercato: quello Affinato, invecchiato almeno 12 anni e quello Extravecchio, con invecchiamento non inferiore ai 25 anni. E confezionato solo in piccole bottiglie di vetro da 100 ml – le famose ampolle a base quadrata disegnate da Giorgetto Giugiaro nel 1987 – esclusive e obbligatorie. Una confezione da fuoriserie per un prodotto che può arrivare a veleggiare sui 400, 450 euro al litro per il 12 anni e fino agli 850, 900 euro per il 25 anni. Circa 100.000 bottiglie all’anno di produzione, una rarità per intenditori. Il che implica che niente di quello che viene venduto nei supermercati a prezzi stracciati possa essere Aceto Balsamico Tradizionale di Modena.
Ma in realtà l’80% della produzione va all’estero, come ci spiega il presidente del Consorzio di Tutela dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena Dop Enrico Corsini, negli Stati Uniti e in Giappone soprattutto, dove questo prodotto esclusivo dal sapore originale rappresenta un’altra delle bandiere del made in Italy. Anche perché sul mercato americano, come d’altronde su quello nostrano, può contare su un paladino d’eccezione: Massimo Bottura, il cuoco star modenese purosangue, da anni in testa alle classifiche dei migliori chef del mondo, è infatti il suo testimone più prestigioso. Produttore lui stesso di un aceto con una sua batteria personale che ha “messo a balia” presso la Consorteria dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena, dove ha anche sede il Museo dell’Aceto Balsamico Tradizionale di Modena e l’organismo del Consorzio che provvede all’esame e al conferimento dell’idoneità alle partite da imbottigliare.
Dedicato alle donne
Ogni batteria di Aceto Balsamico racconta una storia che inizia sempre con una donna.
È la parte di questa storia che ci affascina di più. L’anima del balsamico è ed è sempre stata femminile e questa è la ragione per cui molte batterie di aceto venivano battezzate con il nome di una donna: era la dote che ogni padre preparava per la figlia alla sua nascita e la curava giusto quella ventina d’anni che occorreva per fare maturare un aceto balsamico tradizionale da regalare alla sposa perché potesse portare con sé e tramandare il gusto della famiglia d’origine.
Nel mondo del balsamico tradizionale il tempo non ha più valore, o meglio, è questo straordinario elemento che restituisce agli uomini e alle donne il valore del loro tempo di vita.
Così, se è vero che sono gli uomini tradizionalmente a condurre le batterie di aceto, sono le donne le dispensiere di questo balsamo a metà strada tra il medicamentoso e il culinario. Che in cucina non lo usavano “alla qualunque” come capita oggi con i numerosi similari, ma con sapienza e su basi che possano farlo lavorare al meglio, in particolare i piatti caldi che liberano la componente balsamica.
Il più acidulo perché più giovane – si fa per dire, 12 anni sono una cifra, ma è il limite minimo di invecchiamento anche nel tradizionale di Reggio Emilia – è stimolante sui piatti più grassi, mettiamo un bollito o un arrosto, mentre l’invecchiato, usato con parsimonia, è sorprendente su ingredienti più sapidi da mitigare con la sua vena dolce, tipicamente una noce di Parmigiano Reggiano o un risotto alla sua crema.
E va rigorosamente consumato a crudo, perché contrariamente ad altre formulazioni di aceto balsamico, il Tradizionale di Modena non nasce come complemento alla cucina. Armonico, equilibrato, esaltante nel dispensare il suo profumo, sta in piedi da solo ed è uno dei più gratificanti digestivi che si conoscano.