Gastronomia Storie di cibo

Maiali rosa, maiali neri

Fedeli compagni della nostra avventura di civilizzazione

Teresa E. Baccini Dicembre 2017
Maiali rosa, maiali neri

Se esistesse il movimento di liberazione dei maiali ne faremmo parte. Ne abbiamo viste troppe.

Gli allegri maialini rosa della nostra infanzia ridotti a detenuti in prigioni maleodoranti e infestate. Le scrofe allattanti relegate in gabbie che le costringono penosamente sdraiate e immobili. I codini ricciuti mozzati brutalmente. Gli allevamenti intensivi hanno rotto un patto che durava da millenni tra uomini e maiali. Chi avrà il coraggio di ristabilirlo?

Sembra che la domesticazione del maiale, avvenuta probabilmente in Cina, sia contemporanea se non addirittura antecedente a quella del cane.

Non è pellegrino il paragone con il cane, perché è proprio insieme a lui, più o meno nella stessa epoca, vale a dire la bellezza di circa 7-8.000 anni fa, che entrambi si sono avvicinati per la prima volta ai villaggi umani, essendo capaci di nutrirsi, diversamente dagli altri selvatici, quasi delle stesse pietanze degli uomini, almeno di quelli neolitici. O quantomeno dei loro avanzi. Dunque sono diventati domestici prima di altri animali, ma il maiale non ha mai dovuto sforzarsi tanto, come il cane, per rendersi utile. La sua più vera, portentosa attitudine, quella ad ingrassare, gli ha risparmiato la fatica, anche se gli ha sempre accorciato la vita.

Fedele compagno della nostra avventura di civilizzazione, dalle capanne alle città, considerato a tutti gli effetti animale domestico, ha sempre potuto godere, nel corso dei secoli, di una libertà che solo ultimamente gli abbiamo negato. Nell’Italia preindustriale coperta di boschi di querce e faggi, i maiali hanno sempre vissuto allo stato semibrado. Lo storico Massimo Montanari riferisce che nel Medioevo i boschi venivano “misurati” in base al numero di porci che vi si potevano pascolare e il porcaro che li pascolava, il “magister porcarius”, era quello che riscuoteva il salario più alto tra i servi addetti alle attività produttive. E nelle città, quando venne proibita la libera circolazione degli altri animali domestici, il maiale continuò a trotterellare liberamente, protetto dalla devozione a S. Antonio Abate e dalla convinzione che il suo grasso fosse medicamentoso contro la malattia virale conosciuta appunto come “fuoco di Sant’Antonio”. Il traffico dei maiali divenne così intenso nella Roma di Clemente VII, agli inizi del ‘500, che il papa fu costretto, per scoraggiarne la libera circolazione per le strade cittadine, a emanare un bando specifico che autorizzava chi trovasse per strada un porco altrui a tenerselo. Altri tempi. Altri maiali. Casalinghi sì, ma indipendenti.

Una scrofa di maiale nero con i piccoli a spasso in Piemonte

COME UNO DI CASA

Ancora alla fine degli anni ‘60, il maiale era uno di casa nelle cascine, un giocattolone ingordo e pasticcione, per nulla aggressivo come qualcuno sostiene, guardato con indulgenza e gratitudine; nel bolognese, dove notoriamente ne fanno mortadelle, era chiamato con il vezzeggiativo di “ninein”, nella pianura veneta maliziosamente “mas-cio”, nel parmense più sontuosamente “’l nimel”, l’animale per eccellenza fra tutti quelli allevati nel podere.

Ma in fondo che c’è di strano, ad affezionarsi ad un maiale, se davvero è il mammifero che, visto da dentro, è il più simile a noi dopo gli scimpanzé? Ci sono popolazioni, in giro per il mondo, dove è considerato un vero e proprio “animale da compagnia”. I montanari della Nuova Guinea, lo confermava la decana degli antropologi, Margaret Mead, allevavano i loro maialini con tutte le cure, vezzeggiandoli e pulendoli con attenzione ogni giorno. Le donne se li portavano appresso come cagnolini quando andavano al lavoro nei campi, li allattavano al seno nel caso dovessero essere staccati dalla madre e li lasciavano dormire nella loro capanna con i bambini, relegando gli uomini in abitazioni separate. Solo quando diventavano troppo ingombranti costruivano recinti appositi per custodirli. É vero, alla fine se li mangiavano, come qualunque altro maiale in ogni parte del mondo, ma almeno non li costringevano a una vita di cieca e angusta obbedienza. E che dire degli abitanti di Nias, l’isola indonesiana diventata tristemente famosa dopo il terremoto del 2005 che, secondo lo studioso Pietro Scarduelli utilizzavano i maiali, al pari dell’oro, come strumento di espressione di rapporti sociali nel contesto di stipula di alleanze o acquisizione di prestigio: sembra che, nella dinamica della loro scala sociale, organizzare grandi banchetti a base di carne di maiale fosse lo strumento indispensabile per salirne i gradini. Più maiali venivano sacrificati, in una sorta di ridistribuzione rituale nella quale gli aspiranti capi restituivano i beni accumulati attraverso offerte e tributi, più elevato era il rango al quale si poteva aspirare. Nel bestiario del panorama politico nostrano il maiale non è stato ancora utilizzato con tali valenze, ma è certo che una concezione siffatta del consenso politico potrebbe suggerire campagne elettorali assolutamente innovative e finalmente divertenti anche ai leader nostrani.

SEMPRE PIÙ… MACCHINA DA CARNE

Con noi umani il maiale condivide la fastidiosa qualifica di “onnivoro”; vale a dire che mangia di tutto, dal mais alla frutta, dai cereali alle ghiande, dai tuberi e qualunque altro cibo vegetale purché a basso contenuto di cellulosa perché, come noi, non è in grado di digerirla. Però bisogna riconoscergli il merito di essere il più formidabile trasformatore di proteine vegetali in proteine animali fra tutti i mammiferi domestici. Secondo alcuni autori solo il maiale arriva a convertire in carne il 35% dell’energia contenuta in ciò che mangia, mentre i bovini si fermano al 6,5% e gli ovini al 13%; se alimentato a granaglie, che lo fanno crescere di più e più in fretta nella fase di finissaggio, si calcola che occorrano circa quattro chili di cereali per ottenere un chilo di carne suina, mentre ne occorrono da otto a dieci per ottenerne uno di carne bovina. Fu verso la fine dell’’800 che il Ministero dell’Agricoltura italiano decise di importare alcuni riproduttori inglesi da incrociare con le razze nazionali, per potenziarne l’attitudine all’ingrasso e migliorarne il rapporto scheletro/massa muscolare a favore di quest’ultimo. Oggi sono i discendenti e gli ibridi, variamente incrociati, di razze bianche nord-europee e americane come Yorkshire, Large White, Landrace e Duroc ad alimentare gli allevamenti intensivi della pianura padana, affollati di molte migliaia di capi. Ma solo dopo la seconda guerra mondiale ha preso prevalenza la razza depigmentata più diffusa negli allevamenti moderni, il ben noto maialino rosa. Così è nata la moderna suinicoltura, che ha portato all’estinzione o sull’orlo del baratro le numerosissime razze autoctone nazionali, razze che per secoli avevano sostenuto l’autoconsumo familiare in ogni regione d’Italia.

Allattamento di una nidiata di maialini neri

LA RISCOSSA DEI MAIALI NERI

Salta letteralmente agli occhi la differenza tra i moderni maiali rosa, tipici della Europa del nord e gli antichi maiali dell’area mediterranea di origine ispano-celtica, tutti con mantello più o meno scuro. Animali più rustici, adatti all’allevamento brado o semibrado, oggi rivalutati per la qualità delle carni, meno cariche di acidi grassi saturi e per la compattezza dello strato adiposo, caratteri indispensabili all’alta salumeria nostrana. Richiedono tempi più lunghi per l’accrescimento, ovviamente, per portarli al peso necessario vicino ai 200 chilogrammi. Ma tra l’altro questi tipi di allevamento contribuiscono a rivalutare aree agricole marginali, particolarmente quelle collinari. Solo recentemente la UE si è mossa con incentivazioni per la tutela delle razze tipiche, se non altro per tentare di salvaguardarne il germoplasma, un serbatoio di biodiversità che potrebbe rivelarsi prezioso nel prossimo futuro. Oggi sono solo sette le razze autoctone italiane riconosciute, salvate dall’estinzione direttamente, quando si sono potuti recuperare esemplari superstiti o ricostituite attraverso moderne selezioni e incroci almeno nelle forme e nelle prestazioni carnee. Parliamo di Mora romagnola, Cinta senese, Casertana, Nero dei Nebrodi, Nero Apulo-Calabrese e Sardo, cui si è affiancato recentemente il Nero di Parma, specifico esempio di razza ricostituita. Ancora agli inizi del Novecento il Mascheroni ne aveva censite ben 23. Dagli ibridi, più prolifici e più veloci nell’accrescimento, anche se talvolta dotati di muscoli globosi inadatti alla salumeria da stagionatura, sono nati anche i moderni prosciutti: più dolci, profumati, burrosi, con tutto quel che ne consegue. Solo lontani parenti delle cosce salate di maiale che pare già apprezzassero anche gli Etruschi, tanto da farne oggetto di esportazione dal porto adriatico di Spina verso la Grecia. Infatti, a giudicare dai ritrovamenti fossili della zona padana compresa tra Piacenza e Mantova, si può far risalire l’uso di conservare le carni di maiale, salandole, almeno a tutto l’ultimo millennio a. C., se non prima; quel che è certo è che dai resti recuperati nei dintorni di Mantova risalenti al V secolo a. C., pur nell’abbondanza di altre ossa suine, curiosamente scarseggiano i femori, le ossa della coscia, che evidentemente sotto forma di prosciutti erano conservati e consumati a parte. Si dice che lo stesso Annibale, nel 218 a.C., dopo aver sconfitto i Romani, venne festeggiato dalle popolazioni locali, grate per averle liberate dal giogo romano, proprio con il dono di cosce di maiali salate.

IL MAIALE NON È UN PORCO

Per finire ci piace sfatare un luogo comune: che il maiale sia uno sporcaccione non è affatto vero. Semplicemente ha poche ghiandole sudoripare. Perciò non può sudare e non riesce a rinfrescare la temperatura corporea. Una situazione ambientale attorno ai 30° C lo mette già in grave difficoltà, costringendolo ad ansimare pietosamente. Ecco perché allo stato semi selvatico preferisce luoghi ombrosi e ricchi d’acqua: bagnandosi spesso si difende dal calore esterno e siccome il fango evapora più lentamente c’è una ragione precisa per la sua predilezione a rotolarsi nel fango, cioè il sollievo dura più a lungo. Certo, se non trova sufficiente umidità arriva a rotolarsi anche nelle sue urine e più ingrassa più soffre il caldo, così diventa particolarmente vulnerabile alle malattie e oggetto di pesanti trattamenti farmacologici, per lo più preventivi, di cui noi stessi, notoriamente, facciamo le spese. Ma non sono forse, queste, le condizioni alle quali lo costringiamo nei nostri allevamenti intensivi? E pensare che i maiali cresciuti in allevamenti rispettosi del loro benessere e delle loro naturali attitudini sembrano accumulare nella loro carne fino al 290% in più di omega-3 e fino al 200% in più di vitamina E!

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