Il Devoto-Oli, uno dei più autorevoli Dizionari della Lingua italiana in circolazione, al lemma “eretico”, in sintesi recita: “della persona che nega, pur avendone avuto giusto insegnamento, alcune verità che si devono credere per fede o dubita di esse” e ancora “di persona ostentatamente irriverente o anticonformista”. Potrebbe essere, in estrema sintesi e prendendo le due definizioni dal versante più luminoso, il ritratto di Luciano Usseglio-Tomasset, uno dei grandi personaggi del mondo del vino piemontese ma non solo, visti i molteplici interessi al centro delle sue ricerche e le irrituali prese di posizione che riguardarono l’organizzazione tecnica, scientifica e produttiva dei vini piemontesi, ma anche di molte altre regioni italiane e nazioni europee.
Usseglio-Tomasset era nato nell’aprile del 1927 a Bussoleno e giovanissimo si era appassionato alle questioni scientifiche, laureandosi a ventitré anni in Chimica e specializzandosi poi in Enologia e Viticoltura nel 1954. Ben presto, lui valsusino di “mezza montagna”, sarebbe diventato “monferrino di collina”, trasferendosi ad Asti ed entrando a far parte di quella straordinaria pattuglia di uomini di scienza e ricercatori che operava nell’allora Stazione Enologica Sperimentale (dal 1967 Istituto sperimentale per l’Enologia e in tempi recenti Cra-Eno) diretta dal prof. Clemente Tarantola.
Una vita alla Stazione Enologica di Asti
Alla “Stazione” rimase per quasi quarant’anni, anche se nel 1963 aveva conseguito la libera docenza in Industrie Agrarie e nel 1975 aveva vinto la cattedra universitaria in Industrie Alimentari,
approfondendo studi sulle varie componenti del vino, dai colloidi al ruolo del tartrato di potassio, dalla determinazione della glicerina nei vini al metabolismo della Botrytis cinerea.
In tutto oltre 120 pubblicazioni, l’ultima delle quali sulle innovazioni nelle tecniche di produzione dei vini frizzanti del 1994, tra cui il suo fondamentale “Chimica Enologica” del 1978, oggi quasi introvabile, più volte rieditato e tradotto in molti paesi e l’interessante “Il vino: come produrlo e come conservarlo” del 1985.
Per molti anni sperimentatore e successivamente Direttore della sezione di Chimica dell’Istituto, nel 1977 ne assunse la direzione succedendo al prof. Tarantola e dando da quel momento un forte impulso alle ricerche riguardanti la chimica, ovviamente, ma anche moltissimi altri aspetti del “vasto mondo” del vino, come quello tecnologico, con un particolare interesse per i vini effervescenti, l’enzimologia, gli aromi dei distillati, soprattutto Grappa e Brandy.
Malgrado questo suo intenso lavoro scientifico e di ricerca – vale la pena ricordare che durante gli anni della direzione della “Stazione” che aveva all’epoca anche compiti di servizio repressioni frodi, dovette affrontare, tra gli altri, gli eventi e le conseguenze dello scandalo metanolo – la figura di Usseglio-Tomasset si è caratterizzata, a differenza di quanto è avvenuto per molti suoi colleghi più inclini alla riservatezza, per una costante e sovente dirompente azione di intervento pubblico.
Personaggio, come si direbbe oggi, con la schiena dritta e poco disposto ai compromessi, ebbe il coraggio di sostenere, anche davanti a platee poco o per nulla ben disposte nei suoi confronti, la validità delle sue tante originali intuizioni che, anche se in alcuni casi difficilmente realizzabili, avevano il pregio di avere basi sempre rigorosamente scientifiche.
Di carattere franco con qualche cotè aggressivo quando riteneva che fosse il caso di “andare giù pesante”, fu uno dei rari esempi di indipendenza intellettuale del tempo, caratteristica che lo accomunava all’amico prof. Mario Fregoni con cui era solito, ogni volta che gli eventi lo consentivano, fare lunghe passeggiate discutendo quasi sempre dello stato di salute del mondo del vino e delle sue prospettive di sviluppo.
Un’indipendenza, si diceva, che non gli procurò osannanti consensi ma, e questo è il segno dell’alta considerazione di cui godeva, non gli impedì di ricoprire prestigiosi incarichi accademici e istituzionali in Italia e all’estero. Componente del Comitato Nazionale Vini dal 1984 al 1993, vicepresidente dell’Accademia della Vite e del Vino, fu nel 1989 chiamato alla presidenza della Sottocommissione “Mosti, vini ed aceti, ecc. ecc.” del Ministero dell’Agricoltura, e infine Presidente della Commissione Enologia e della Sottocommissione Metodi di Analisi dell’Office International de la Vigne et du Vin.
Le provocazioni “eretiche”
A proposito di indipendenza di giudizio e della laicità delle sue opinioni che lo trovavano sempre fortemente critico nei confronti delle caste e di molte affascinanti quanto scientificamente poco provate, liturgie del mondo enologico, clamorosa fu la dimostrazione, spiegata in terra francese con un gusto della provocazione che lo rendeva unico in un mondo di acquiescenti poeti del vino, che non vi era differenza tra uno spumante prodotto con il fino ad allora intoccabile “Methode Champenoise” e uno prodotto in autoclave, magari con il cosiddetti “Charmat lungo”. Come era solito ripetere ai giovani apprendisti stregoni che ne seguivano gli insegnamenti, “il vino si fa nella vigna e noi in cantina cerchiamo di perdere solo pochi dei valori racchiusi nel grappolo cresciuto bene. E non possiamo migliorare alcunché”.
Non fu questa la sua sola presa di posizione “eretica”. Non amava, per esempio, l’uso smodato della barrique, e vedeva con palese diffidenza crescere l’abitudine di utilizzare i cosiddetti vitigni migliorativi francesi; ironizzava assai sul fatto che qualche produttore “radical chic” preferisse elaborare “vini d’autore” piuttosto che dare prestigio e qualità alle nostre Doc e Docg, e anche sulla bizzarra idea di definire “Classimo” lo spumante italiano prodotto alla “moda francese”. Della bontà di Doc e Docg era convinto assertore operando con grande impegno perché, ad esempio, diventasse una Docg l’Asti, ma anche, o soprattutto, la Barbera d’Asti che considerava, una volta attuate tutte le giuste misure “disciplinari” (zonazione, piramide della qualità, ecc.), un vino degno della scena internazionale.
Era stato un convinto sostenitore del progetto, elaborato alla fine degli anni ‘80 dalla Viticoltori Piemonte “minor produzione, maggior reddito” perché sapeva che, oltre al reddito, si sarebbe avuta anche maggior qualità. Aveva infine visto con notevole interesse la possibilità di produrre vini freschi e beverini in tempi brevi come i “Novelli” che avrebbero potuto addirittura essere vinificati tutto l’anno (“L’Asti non fa già così?” era solito dire) ed aveva contribuito a dare vita all’esperimento, di non lunga vita va detto, dell’Arengo, così come – lo affascinava il mondo degli spumanti – aveva felicemente convinto la Cave de Morgex et de La Salle in Valle d’Aosta a sfruttare la vocazione spumantistica di un’uva rara come il Priè Blanc, allevata in vigneti a mille metri di altitudine e dotata di un corredo acido indomito secondo la sua letterale definizione. Insomma un instancabile appassionato dell’innovazione a patto che non si trattasse di qualche bluff, pronto a smascherarlo anche a costo di farsi qualche “nemico” importante come furono a suo tempo il ministro dell’agricoltura Calogero Mannino o l’indiscusso guru del vino italiano, Luigi Veronelli.
Del suo pensiero fuori dal coro è rimasta traccia in un delizioso libriccino stampato nel 1996 a cura del Centro per la cultura e l’arte Luigi Bosca di Canelli intitolato “Su queste colline”. Accompagnato da preziose annotazioni sulla sua vita professionale, vi sono riportati gli interventi che aveva redatto per il “Barolo&Co” della prima metà degli anni ’90. Una piccola e magnifica antologia oggi pressoché introvabile che meriterebbe forse di essere rieditata.
Insignito negli anni di numerosi riconoscimenti – tra gli altri il “Premio Assoenologi per la ricerca scientifica in viticoltura e l’enologia”, il parigino “Personalità dell’anno” nel 1990 e la Gran Medaglia Cangrande del Vinitaly – Usseglio-Tomasset morì prematuramente e improvvisamente nei primi giorni di giugno del 1995. Da vero figlio del Monferrato quale era diventato, scelse di riposare nel piccolo cimitero di San Desiderio di Calliano dove da tempo si era stabilito con la famiglia, la moglie Elide e i figli Stefano e Marco.