Fin dal tardo medioevo i limoni dell’estrema Liguria occidentale (i succosi “sanremini”), come pure le arance amare, costituivano la base delle confetture genovesi, assai rinomate in Europa nell’ultimo scorcio del Quattrocento, quando nella “Superba” operavano già una settantina di laboratori artigianali, la cui attività era regolamentata dalla Consorteria formatasi nel 1487. La prima testimonianza di un “confettiere”, Nicolò da Recco, risale al 1330.
Giovanni Rebora, compianto studioso di storia dell’alimentazione, sottolinea come fu poi «la relativa diffusione dello zucchero» a «permettere ai mediterranei di esportare anche frutti canditi». E furono proprio i Genovesi ad assicurarsi, sul principio dell’età moderna, «l’egemonia della produzione e del commercio dello zucchero», fattore che nella capitale ligure portò al rapido sviluppo dell’attività di confezionamento di confetture e marmellate da vendere su larga scala.
Tra i “dolci peccati” del Rinascimento, per usare le parole dello stesso Rebora, vi erano anche i dolci di importazione, di matrice araba: frutta secca, marzapani di Cipro, torrone di Valencia, che producevano un gradevole effetto estetico nei banchetti signorili.
Per il corografo Gio. Domenico Peri, autore nel 1682 di un’efficace descrizione «dei negozi overo industrie che si fanno nella città di Genova», le confetture e «le conserve in zuccaro» di fabbricazione locale «sono le più eccellenti che s’acconcino in alcun’altra parte del mondo».
Come i canditi genovesi conquistarono il mondo
I canditi (di frutta o di violette), per la loro squisitezza, conquistarono anche Diderot e D’Alembert, che segnalarono la maestria degli artigiani genovesi nella Encyclopédie. Prima della Rivoluzione francese dal porto della Lanterna si esportavano ogni anno dai 60 agli 80.000 quintali di confetti e, per l’appunto, di canditi in direzione di Spagna, Olanda, Germania e Inghilterra. Intorno alla metà del XIX secolo operavano a Genova circa 18-20 fabbriche o botteghe specializzate in quest’arte (tra cui quella, celeberrima, di Pietro Romanengo) ed in esse trovavano impiego 150 persone. Il prodotto veniva spedito in Piemonte, nel Milanese, in Toscana, Francia, Danimarca, Svezia, Russia e finanche nelle Americhe.
Nelle case nobiliari genovesi, ai conviti era d’uso offrire gelati, sorbetti e «cioccolatte» che avevano «riputazione ben meritata di bontà». Il cioccolato si consumava preferibilmente in forma liquida. La ricetta prevedeva l’utilizzo del pregiato cacao “caracca” (così detto perché proveniente da Caracas, in Venezuela), miscelato con zucchero e cannella in quantità variabili. La Cucineria genovese di Giovanni Battista Ratto e figlio, edita dal 1863, elenca poi le tante prelibatezze che uscivano dalle cucine: pasticcini con la marmellata (i “cobeletti”), budini “biancomangiare”, di panna e di latte oppure al limone e ai marroni, ciambelle di pasta di mandorle (“canestrelletti”), numerosi tipi di “quaresimali” o biscotti (antichissimi e tradizionali quelli “del Lagaccio”, con finocchio dolce, nati come sorta di pane biscottato, cioè cotto due volte, per essere meglio conservati durante i lunghi periodi di navigazione), marroni canditi, latte fritto, frittelle dolci, un’infinità di torte, arricchite di spezie e mosto cotto. Lo scenografico assortimento si completava a Natale: sulle tavole, infatti, era “indispensabile” il gustoso e sostanzioso Pan dolce, il fratello maggiore del panettone milanese. Infine, non mancavano mai in abbinamento i vini aromatici e liquorosi (Marsala, Madera, Sherry, introdotti in gran copia) o il rhum.
Quando la concorrenza francese si trasferì in Liguria
Nell’ultimo quarto dell’Ottocento vale la pena di segnalare che la vicina Savona, in una sorta di deriva a ponente di antichissime abilità, cominciò a fare decisa concorrenza all’industria dolciaria genovese. Nell’Inchiesta Jacini, che doveva fornire un ampio quadro dello sviluppo agrario nazionale, si legge che in questa città era nata un’azienda importante «per la varietà dei frutti manipolati» con i quali si confezionavano canditi e prodotti dolciari esportati all’estero. Per la loro bontà questi prodotti avevano ottenuto premi «alle esposizioni di Parigi e Filadelfia».
La ditta di cui si parla è la Silvestre-Allemand, fondata nel 1780 ad Apt, nel dipartimento di Vaucluse (nei pressi di Avignone) e impiantata in Riviera nel 1877. Ad attirare gli imprenditori francesi era stata la ricchezza di chinotti del contado finalese-savonese, che forniva quasi 7.000.000 di pezzi all’anno. Il piccolo agrume, che dà frutti dalla buccia fine e ricca di sostanze aromatiche, si prestava infatti molto bene alle lavorazioni dolciarie, dalla canditura alla preparazione di marmellate. All’inizio del XX secolo lo stabilimento industriale contava circa 1.000 operai che lavoravano non solo i pregiati chinotti, ma anche arance, mele, pere, fichi, mandorle, pesche e albicocche. Tra il 1890 e il 1910 vennero fabbricati annualmente 2.000 quintali di chinotti e altri frutti canditi, spediti quasi del tutto in Inghilterra e nelle Americhe, più 1.000 quintali di frutta sciroppata e marmellate, smaltiti all’opposto soltanto in Italia.
Sulla scorta del successo della Silvestre-Allemand, conosciuta in tutte le grandi capitali europee, altre aziende alimentari si svilupparono a Savona: le più note erano la Besio & Isetta, la Fratelli Besio e la Fratelli Canepa. Tuttavia, negli anni Venti una serie di circostanze negative, come l’inusuale incidenza di gelate invernali che danneggiarono le piante e l’aggressiva concorrenza straniera favorita da incaute agevolazioni governative, segnarono il declino del comparto dolciario savonese. Non era però ancora giunto il momento per l’ultimo atto di uno straordinario percorso cominciato nel medioevo: la recentissima riscoperta delle qualità del frutto di chinotto, protetto ora da un Presidio Slow Food, ha ridato slancio all’arte della canditura, di nuovo praticata in piccole realtà artigianali da Alassio a Genova.
(Ph. Archivio Romanengo 1780)