Era il 1971 quando Luigi Veronelli scriveva: “Coazze: è possibile acquistare, prima della discesa invernale dagli alpeggi, il piccante Cevrin a base di solo latte caprino, e la possente tuma veja a base di latte misto”. (Alla ricerca dei formaggi contadini, Italia del Nord, allegato a Panorama, 1971)
Parto dal grande Veronelli di cinquant’anni fa per giungere, adesso, a Maria Lussiana, pastora e casara in giro sugli alpeggi di Coazze con le sue circa settanta capre. È stata lei, dopo l’intervista, a farmi cercare fra i miei scartafacci dello studio la citazione veronelliana che calza a meraviglia con la sua descrizione del Cevrin, formaggio antico e moderno, unico a suo dire, che già ammicca al piccante. “Ma non è il piccante solito, è qualcosa di diverso; – dice Maria – è il risultato conferito dall’insieme di animale, erbe e fiori estivi del pascolo. Qualcosa di unico. Che il formaggio raggiunge solo quando ha novanta-cento giorni di vita.” La descrizione ricalca quella di Veronelli, salvo che lui citava il Cevrin di pura capra. Ora si fa con latte misto di capra e vacca, se va bene al 50%, ma per lo più il caprino s’assesta sul 40%. Possiamo affermare quindi che il moderno Cevrin assomiglia alla tuma di cinquant’anni fa. Ma, alla fine, ciò che conta è il latte di partenza, che deve essere di alta qualità.
Dal latte ai caratteri organolettici
E la qualità, su queste montagne piemontesi della Val Sangone, inizia dalla razza. La capra è una Camosciata delle valli piemontesi, bella ed elegante, agile e snella, dal manto rossastro e dalle lunghe corna all’indietro da farla assomigliare allo stambecco. Da esso ha preso anche robustezza e frugalità, che le consentono di saltare sugli scoscesi declivi dell’Alpe piemontese e di accontentarsi di poca erba, al bisogno. Andate d’estate sui pascoli dell’alpeggio Sellery dove brucano quelle di Maria, e capirete. Purtroppo il loro gregge complessivo s’aggira soltanto su qualche centinaio di capi, dai 300 ai 400. La mandria delle vacche, invece, è piuttosto prospera ed è composta dalla razza che possiamo ormai definire autoctona, qui chiamata Barà, ma facente capo alla Pustertaler; un altro ceppo si trova in Trentino. Il manto è bianco con chiazze scure, talvolta rossicce; presenta una tipica fascia bianca che circonda il corpo longitudinalmente.
Per ottenere la massima qualità occorre osservare un’altra prerogativa essenziale: il latte crudo, come fa Maria e gli altri due casari, tutti di cognome Lussiana, del Presidio Slow Food. Sebbene la scheda tecnica della PAT Cevrin di Coazze della Regione Piemonte ammetta anche il latte termizzato, e non dica nulla sulle razze animali del luogo. Sarebbe il caso di rimediare.
Ma torniamo alle caratteristiche organolettiche del nostro Cevrin, che in dialetto significa “caprino”, come alle origini. “Con tre mesi almeno di stagionatura, la pasta verso la crosta si fa gialla e tenera, mentre all’interno si mantiene bianca e più dura. È una caratteristica del nostro formaggio: più stagiona, più s’ammorbidisce”, racconta Maria. È questo il momento di gustarlo al meglio. Odori caprini e di pascolo si mescolano, l’ircino tende la mano agli aromi dei fiori secchi di montagna, mentre la struttura della pasta si fa fondente e solubile man mano che procedi verso la crosta. La quale è rossiccia tendente al marrone, non edibile. La tometta è cilindrica, dai 15 ai 18 cm di diametro, con scalzo diritto dai 6 ai 9 cm, con peso dagli otto etti a un chilo e mezzo. Si fa esclusivamente d’estate da animali al pascolo sugli alpeggi di Coazze e Giaveno in provincia di Torino. Tuttavia è consentito anche il Cevrin invernale, con gli animali stabulati in area montana, nutriti in modo corretto, con fieno integrato da orzo e mais; l’invernale è dichiarato in etichetta, che deve essere di un altro colore: marrone per il Cevrin estivo d’alpeggio, verde per Cevrin invernale di montagna.
Se si segue la tradizione, il latte della sera di entrambi gli animali sosta per tutta la notte in ambienti freschi onde raggiungere una certa acidità naturale; poi si aggiunge caglio di vitello (o anche di capretto) e si fa coagulare in caldaia a 35-38° C; in poco più di mezz’ora si forma il coagulo che viene rotto per lo spurgo e poi messo negli stampi. Secondo la scheda regionale, il latte caprino del mattino è aggiunto a quello della sera vaccino. Le formaggette vengono salate in crosta una sola volta e dopo qualche giorno passano nei locali di stagionatura, deposte sugli assi di legno dove vengono rivoltate più e più volte. Non vengono lavate. Dopo 80-90 giorni sono pronte per la vendita.
Consigli per il consumo
Per i turisti e gli amanti del formaggio sono stati tracciati sentieri alla ricerca dei pascoli e delle malghe, con soste nei rifugi. Ma è la festa della transumanza di Coazze, a metà ottobre di ogni anno, a raccogliere migliaia di visitatori: le capre scendono a valle dopo essere state in quota, intorno ai 1500 metri, fin da marzo, allo sciogliersi delle nevi. Sono salite in alto a brucare erbe aromatiche e fiori profumati, hanno dormito la notte all’aperto, sfidando il lupo che ogni tanto fa capolino anche da queste parti. Hanno osservato, in basso, sui prativi, le mucche pezzate cibarsi allo stesso modo, ma su pendii più dolci. Poi docilmente si fanno mungere e nei casotti si fa il Cevrin, come da sempre s’è fatto. Salendo in malga, si può comprare dai casari e mangiarlo in loco o portalo a casa e consumarlo con gli amici, con una bella bottiglia di rosso o di bianco strutturato. Se il formaggio è abbastanza stagionato, bisogna far attenzione ai tannini del vino che potrebbero entrare in collisione col piccante, per cui è preferibile una Barbera d’Asti o d’Alba.
In cucina, bisogna far attenzione: l’ircino del Cevrin stagionato può offendere i palati un po’ troppo fini per cui è bene astenersi da creme e fondute piuttosto che allungarle con la panna. Oppure, educhiamo gli amici all’autenticità dei gusti. Il Cevrin di Coazze, o meglio tutto il mondo che ruota attorno al Cevrin, fatto di alpeggi, animali e uomini, merita questa riconoscenza.