Dolce e fragrante per eccellenza, è la sintesi del lavoro fatto insieme dalla vite di Moscato, dalle terre bianche di collina e da un cielo dibattuto ogni giorno tra il sole e le nubi.
È un po’ vino della festa e un po’ vino della gente, in particolare della gente di collina che ne produce le uve e che da tempi infiniti si cimenta nella trasformazione dell’uva in vino, praticando una lotta spesso impari per mantenere intatto il residuo zuccherino che rende il Moscato d’Asti un prodotto irripetibile insieme alla ricchezza acida che nel calice accentua fragranza e piacevolezza.
Con la gente delle colline che vanno dalle Langhe fino all’Alto Monferrato e all’Acquese quest’uva e questo vino hanno intrecciato un rapporto profondo, quasi una complicità, ancor prima che la denominazione di origine nel 1967 ne sancisse il prestigio e la qualità. Un rapporto che si è sviluppato soprattutto a tavola con questo vino addirittura a far compagnia ai piatti salati.
Il Moscato d’Asti ha mille ragioni di esistere, ma la sua origine è legata in particolare a pochi fattori che ne plasmano la produzione, influenzano i caratteri, ne determinano la capacità di accompagnare la tavola e altri momenti della giornata.
I fattori della produzione
Alla base di tutto c’è una terra di colline, anche di altitudine accentuata, che spazia tra le province di Cuneo, Asti e Alessandria, secondo una traccia che, nel cuore del Piemonte vinoso, va da ovest a est. È una terra di suoli bianchi, spiccatamente calcarei, che ogni tanto si lasciano permeare da infiltrazioni di argilla o di sabbia. Ogni collina celebra il vitigno Moscato con un rapporto tutto suo, quasi esclusivo, certamente speciale. E così gli effetti sull’uva e sul vino sono decisivi: zona per zona i caratteri nel calice sono differenti, magari di poco, ma lo sono.
E, poi, c’è il vitigno, quel Moscato bianco, che si distingue per alcuni atteggiamenti produttivi originali: la predilezione per le zone di collina e le terre bianche, un bisogno contenuto di sole e di caldo, l’amore per il clima freddo e temperato, con le stagioni ben definite, l’inverno rigido e nevoso, l’estate calda, luminosa e, possibilmente, non troppo afosa, per salvaguardare quel quadro aromatico che affascina il degustatore esperto e il neofita.
L’uva Moscato e il suo vino amano la tecnica e la tecnologia, la precisione dei tempi di lavorazione, la rigorosa pulizia e il rispetto dei caratteri di origine. Ogni vino, in fondo, è così, ma nel Moscato d’Asti la pretesa è maggiore. Rifugge dall’improvvisazione e dalla mediocrità, ama le fasi produttive compiute nei tempi giusti e con estremo rigore.
Strategica è quindi la presenza di un uomo preparato e meticoloso, in vigna come in cantina, un uomo che non abbia fretta, ma che allo stesso tempo sia tempestivo nei gesti, senza perdite di tempo, rinunce o compromessi.
L’uomo governa i processi produttivi, traduce nell’uva e nel vino i caratteri della vigna, soprattutto di quel binomio inscindibile che c’è tra la terra e la pianta. È l’uomo “artigiano” nel vero senso del termine, che sa concretizzare con le mani le intuizioni dell’intelletto.
Una sola denominazione di origine
Risale al 1967 il riconoscimento della Doc, il 9 luglio di quell’anno. La Docg arriverà qualche anno dopo, il 29 novembre 1993.
Non era il primo riconoscimento di qualità e origine che toccava al Moscato d’Asti. Già negli anni Trenta gli era stato attribuito il titolo di “vino tipico di pregio” insieme all’Asti Spumante.
Così, il Moscato d’Asti ha condiviso la zona, il vitigno e il cammino produttivo con un fratello più grande, per certi versi ingombrante, egemonizzato da un piccolo gruppo di grandi spumantisti, che nel tempo lo hanno amato e tradito, osannato e vituperato, sostenuto e abbandonato, ignorando nel frattempo il Moscato d’Asti.
Fin dal riconoscimento della Doc, la coesistenza tra questi due “fratelli di terra e di vitigno” non è stata facile: se – come abbiamo detto – l’Asti è da sempre prerogativa di grandi marchi, il Moscato d’Asti è rimasto a lungo appannaggio di piccole realtà produttive, soprattutto viticoltori che sono cresciuti e diventati anche produttori di vino.
Anche il loro rapporto con il consumatore è stato diverso: se l’Asti, soprattutto a livello territoriale, non sempre ha saputo coinvolgere il consumatore, il Moscato d’Asti ha sempre destato una bella complicità con la tavola, affascinando, coinvolgendo e regalando emozioni.
Addirittura c’è stata una fase storica – tra la fine degli anni Settanta e tutti gli Ottanta – durante la quale i colossi produttivi dell’Asti non gradivano che si sapesse che il loro spumante e il Moscato d’Asti erano prodotti con lo stesso vitigno e nel medesimo territorio.
L’Asti doveva essere un “unicum” senza paragoni e confronti.
Due percorsi differenti
In fondo i due vini – seppure legati dalla stessa denominazione – hanno sempre avuto due percorsi differenti, sia produttivi che di mercato, sia di immagine che di identità.
L’Asti è sostanzialmente il vino dai grandi numeri, con meccanismi produttivi standardizzati e con scarsi riferimenti alla produzione agricola e al vigneto d’origine.
Il Moscato d’Asti, invece, ha un approccio del tutto differente: non ha mai dimenticato il suo legame con la vigna e la sua origine agricola. Anzi, spesso l’ha esaltata, fino a fare vinificazioni separate per le uve provenienti da vigneti differenti.
Anche i numeri per molto tempo sono stati decisamente diversi: l’Asti è stato ed è tuttora un colosso produttivo, arrivando anche a superare gli 80 milioni di bottiglie vendute in un anno. Il Moscato d’Asti è rimasto a lungo ancorato alle sole produzioni dei “viticoltori-artigiani”, mettendo insieme fino al 2004 e 2005 appena 7 milioni di bottiglie.
Le differenze tra i due vini hanno interessato anche i mercati: se l’Asti, pur con un discreto spazio in Italia, ha generalmente privilegiato l’esportazione, il Moscato d’Asti è rimasto per tanto tempo privilegio del mercato domestico, più vicino e congeniale alle dinamiche dei piccoli produttori.
La crescita numerica del Moscato d’Asti
Il vigneto di Moscato nella zona di origine della denominazione Asti è da sempre uno solo. Durante ogni vendemmia il viticoltore può scegliere a quale dei due vini (Asti o Moscato d’Asti) destinare la sua produzione. È vero che è possibile anche un ripensamento successivo alla vendemmia con la scelta di cantina da Moscato d’Asti ad Asti (mai al contrario), ma capita più di rado. Perciò i dati relativi al potenziale viticolo sono riferiti a entrambi i vini e segnano negli ultimi quarant’anni una tendenza alla crescita dai 6.800 ettari di inizio anni Ottanta fino alla situazione odierna, che oscilla, un anno per l’altro, tra i 9 e i 10 mila ettari di vigneto. Un dato raggiunto un bel po’ di tempo fa, all’inizio degli anni Novanta.
Situazione un po’ differente è quella relativa alla produzione effettiva di ogni annata. In questo caso, disponiamo – grazie al lavoro del Consorzio per la Tutela dell’Asti e dell’Assessorato Agricoltura della Regione Piemonte – dei dati sia dell’Asti che del Moscato d’Asti.
Relativamente al Moscato d’Asti, si nota una graduale tendenza all’incremento della produzione destinata al mercato, tendenza che si è accentuata dal 2006.
Il primo dato disponibile, quello del 1994, dice che di Moscato d’Asti si vendevano quasi 2.400.000 bottiglie. Nel 2000 i volumi sono saliti a 4.900.000 pezzi e nel 2005 a 7.400.000 bottiglie.
Da quel momento le cose sono decisamente cambiate e nel Moscato d’Asti si è innescata una corsa all’incremento dei numeri che ha portato la produzione a raggiungere i 20 milioni di bottiglie nel 2010, i 25 nel 2012, i 28 nel 2014, fino a stabilizzarsi dopo il 2015 tra i 30 e i 32 milioni di pezzi.
Viene da chiedersi quale straordinario fenomeno produttivo abbia determinato questa crescita così decisa e chi siano stati gli autori delle nuove bottiglie di Moscato d’Asti prodotte dopo il 2005: solo i produttori artigiani cresciuti in modo esuberante oppure altri protagonisti della filiera produttiva della Docg Asti?
La risposta è evidente: un numero sempre più elevato di spumantisti che fino a poco prima avevano privilegiato in modo quasi esclusivo la tipologia Asti, trascurando il Moscato d’Asti.
Anche dopo l’annata 2005 è rimasta la demarcazione tra “produttori artigiani” e case spumantistiche, ma il risultato di questo “travaso” è stata la costante riduzione delle bottiglie dell’Asti e la continua impennata di quelle di Moscato d’Asti.
Quali siano stati gli effetti a livello qualitativo su questo vino sono sotto gli occhi di tutti. Certamente, la qualità tangibile dei vini dei “produttori-artigiani” non è diminuita, anzi si è rafforzata. La componente commerciale e industriale ha riversato sul Moscato le aspettative che un tempo dedicava all’Asti, logicamente con volumi spesso elevati e con livelli di qualità standardizzati, diciamo così.
Se questo trend evolutivo in prospettiva futura sarà davvero un vantaggio o un limite per le dinamiche di mercato e, soprattutto, di immagine del Moscato d’Asti lo si vedrà con il tempo.
Al momento, possiamo solo segnalare le perplessità e le preoccupazioni di quei piccoli produttori che hanno lottato e lavorato per creare un vino che rispondesse alle aspettative loro e dei loro consumatori e oggi si trovano a condividere il cammino con protagonisti della filiera che fino a una quindicina di anni fa non avevano nulla a che spartire con il Moscato d’Asti.
Che lo stimolo a produrre in modo massiccio questo vino sia venuto dal testo di una canzone di un rapper americano molto conosciuto dove si ripeteva in modo assillante la parola Moscato è solo casualità che rivela le stranezze di un mondo per il quale il territorio, il vigneto e la gradevolezza del vino sono spesso un dettaglio.
Perché non due denominazioni differenti?
Sulla base delle considerazioni fin qui sviluppate, forse nel tempo si sarebbe potuto trovare una strada diversa per questi due vini. Pur disponendo del medesimo territorio di origine e utilizzando lo stesso vitigno, forse avrebbero potuto sviluppare due percorsi distinti, anche con il ricorso a due denominazioni di origine distinte.
È vero che uno sviluppo del genere con la prima legge sulle Denominazioni di origine (la 930 del 1963) era sostanzialmente precluso o di difficile attuazione, ma con l’entrata in vigore della nuova legge, la 164 del 1992, il percorso sarebbe stato possibile.
Ma nel settore questa opportunità non è mai stata esaminata con la giusta convinzione.
Nella storia parallela di Asti e Moscato d’Asti ci sono stati momenti nei quali questa “separazione” sarebbe potuta avvenire. Il più propizio avrebbe potuto essere quello del passaggio dalla Doc alla Docg (1993), ma di fatto nessuno ha manifestato il coraggio necessario.
Probabilmente, questo legame tra Asti e Moscato d’Asti andava bene ai due gruppi di produttori.
Andava bene anche ai viticoltori produttori di uva e non vinificatori e alle cantine cooperative, che in questo transito possibile del vino da Moscato d’Asti ad Asti intravvedevano una manovra di salvaguardia, da utilizzare quando le scelte vendemmiali si fossero rivelate inadeguate.
La promessa del Canelli Docg
Ciò che non è stato fatto nel passato adesso sembra profilarsi all’orizzonte. Oggi, al centro delle attenzioni c’è il progetto “Canelli Docg”, che si configura come trasformazione della Sottozona “Canelli”, nel disciplinare del Moscato d’Asti dal 2011, in un vino a sé stante, addirittura Docg.
Tutto è legato a un bel gruppo di produttori artigiani che dal 2011 hanno cominciato a lavorare per conseguire questo obiettivo, costituendo l’associazione “Produttori Moscato di Canelli”.
Canelli Docg oppure Moscato di Canelli Docg avrà un proprio disciplinare di produzione e una base vitata specifica. Avrà quattro tipologie: Canelli e Canelli con indicazione di Vigna, Canelli Riserva e Canelli Riserva con indicazione di Vigna.
Il passo decisivo è avvenuto il 15 aprile scorso, con il via libera da parte del Consorzio dell’Asti e la successiva approvazione in Comitato Vitivinicolo regionale.
La zona di origine occupa l’area più strategica del mondo dell’Asti, dove la tradizione è antica e la qualità eccellente. In tutto sono 19 paesi, tra la provincia di Asti (Calamandrana, Calosso, Canelli, Cassinasco e Coazzolo per intero e Bubbio, Castagnole Lanze, Costigliole d’Asti, Loazzolo, Moasca e San Marzano Oliveto solo in parte) e quella di Cuneo (Camo, Castiglione Tinella e S. Stefano Belbo per intero e Cossano Belbo, Neive, Neviglie e Mango solo in parte).
Le rese a ettaro sono più contenute rispetto all’Asti: 9.500 chilogrammi per il Canelli e il Canelli Riserva e 8.500 chilogrammi per le tipologie con indicazione della Vigna. Molto intriganti sono le due tipologie “Riserva”, i cui vini avranno un invecchiamento minimo di 30 mesi, dei quali almeno 20 mesi di affinamento in bottiglia, calcolati dal 1° ottobre dell’anno di vendemmia.
Difficile dire quando il sogno diventerà realtà: il percorso burocratico è appena cominciato. Con buona ragionevolezza si può immaginare che l’attuazione della nuova Docg possa avvenire con la vendemmia 2020 o 2021. Nel frattempo, i produttori possono continuare a lavorare con il “Canelli” Sottozona del Moscato d’Asti Docg.
Non dite a questi produttori che il loro progetto è come una fuoriuscita dall’Asti e dal Moscato d’Asti. Non la vedono così. Gianmario Cerutti, che dell’associazione è il presidente c’è l’ha descritta con un’immagine gradevole. “È come quando un ragazzo di buona famiglia si sposa e va ad abitare fuori casa. Non è un distacco totale. Solo inizia un suo cammino, ma torna spesso in famiglia e non solo per le feste e le occasioni piacevoli. Così è il Canelli Docg nei confronti dell’Asti e del Moscato d’Asti: un vino che inizia un suo cammino e vuole poco per volta diventare grande, senza rinnegare il mondo dal quale è venuto.”
Nel calice, fragranza e sapidità
Come spesso capita, è la prova che convince senza dubbi. E la prova in questo caso è la degustazione, un atto che va al di là delle strategie del settore, che pone in secondo piano il percorso evolutivo di questo o di quel prodotto, che convince della bontà della scelta e nulla di più.
Così è per il Moscato d’Asti, che nel calice e nel rapporto stretto con ogni appassionato degustatore continua a donare con generosità le sue certezze.
Lo cerchiamo, lo vogliamo, lo amiamo prima di tutto perché è frutto della vigna, di quella particolare posizione assolata che abbiamo imparato a conoscere. Lo desideriamo perché è vino immediato, vicinissimo all’uva e, quindi, capace di tradurre nel calice la sconfinata ricchezza di profumi che deriva da questo grappolo che a maturazione prende il colore dell’oro.
Subito, nel calice, appare quel colore giallo e dorato, inconfondibile, che ricorda le sfumature dell’uva matura. Poi, è la volta dei profumi, un complesso aromatico e fruttato che ti riporta all’uva Moscato, la pesca gialla, la rosa ed il miele, senza trascurare altri ricordi floreali come il tiglio, l’acacia e il glicine e, quando il Moscato d’Asti è molto affinato, i sentori ammaglianti dei frutti surmaturi e canditi.
In bocca, di prim’acchito prevale il sapore dolce e rotondo. Ma – badate bene – ma non è mai sovrabbondante, mai stucchevole. Anzi è così fresco e fragrante, che continuerete a cercarlo, ad assaporarlo, in alternativa a quella gradevole sensazione acida che si lascia appena percepire, ma che c’è e si fa apprezzare in continuo. Poco per volta vi accorgerete che la dolcezza e quella delicata acidità cominciano a dare vita a una lotta orgogliosa e continua, fino a quando tutto si placherà perché la voglia di un nuovo sorso ha preso il sopravvento. E tutto ripartirà da capo.
Questa fragranza stimolante è il segreto della piacevolezza sconfinata del Moscato d’Asti. Se la scoprite non la dimenticate più. Anzi, vi farà piacere cercarla in altri calici di Moscato d’Asti. Finisce che lo bevete e basta, questo calice, senza pensarci troppo. E vi darà un piacere infinito.