Una foglia di fico cela sempre metaforiche debolezze e sensi di colpa umani, oltre alle pudenda dei nostri antenati Adamo ed Eva nelle raffigurazioni della tradizione.
È il caso del celebre affresco del Masaccio alla cappella Brancacci di Firenze, dove le foglie di fico sono però state sovradipinte dai bacchettoni della Controriforma nel XVII secolo, e giustamente rimosse nei recenti restauri del capolavoro. Il fico, con foglie e frutti, è tra le specie vegetali più rappresentate nell’arte figurativa e che più ricorrono sulla bocca del popolo, che ammicca al doppio senso allusivo ai genitali femminili. Doppio senso volgare e di lunga tradizione latina e forse anche greca, ma positivo, che si estende a qualsiasi cosa bella e attraente, nel gergo giovanile: “che figata!” o “fichissimo!”, o ancora “che gran tocco di figo!”, è comune intercalare nelle conversazioni da bar, persino nelle radio o nelle televisioni commerciali, sulla bocca di italiane e italiani di ogni condizione sociale e grado di istruzione.
Sempre della pianta in questione si tratta, e non è un caso. Perché il fico (Ficus carica, proveniente dalla Caria, una regione dell’Anatolia) è con noi da tempo immemorabile, tanto che la Bibbia ne fa menzione nell’episodio della cacciata dal paradiso terrestre e in tante altre occasioni, tra cui quella della parabola evangelica del fico sterile, maledetto da Cristo.
La ricerca scientifica conferma la nostra dimestichezza con questa specie: nel sito archeologico di Gigal, nei dintorni di Gerico, in Palestina, sono stati ritrovati resti carbonizzati di vari esemplari, databili intorno al XII secolo avanti Cristo. Il fatto che si trattasse di piante diverse, ma geneticamente identiche, fa pensare al fico come prima pianta addomesticata dall’uomo, grazie alla facilità di propagazione per talea. Ben prima dell’orzo, del farro e del grano, sarebbe dunque il fico il protagonista della nascita dell’agricoltura. Oltre a essere stato, fin dal Paleolitico, importante fonte di nutrimento per i primi uomini e donne, che ne raccoglievano i frutti spontanei e probabilmente usavano le larghe foglie come supporto per altri cibi. Sul territorio italiano lo si trova coltivato (o spontaneo ma oggetto di cure colturali) dal Neolitico in vari siti delle isole e del Meridione e dall’Età del Bronzo anche al Nord.
Appartenente alla famiglia delle Moraceae, è quindi parente del gelso e di varie specie esotiche, tra cui molti ficus ornamentali presenti nei nostri salotti. Rispetto a questi nobili cugini, il fico, nonostante la lunga storia e la bontà dei suoi frutti, è considerato un albero dei poveri, da poco, come recita l’adagio “non valere un fico secco”. E guai, poi, a “fare le nozze con i fichi secchi”! Mangiare pane e fichi è sinonimo di miseria, tanto che un cesto di fichi in regalo non si nega a nessuno, così come si consente a chi passa a piedi per le campagne, soprattutto al Sud, di mangiarne liberamente da alberi incolti e incustoditi. Tanto quasi nessuno li raccoglie per la vendita. Di scarso pregio è anche il suo legno, elastico e fragile insieme. Attenzione dunque, ad arrampicarsi sui rami alti: la pianta è soggetta a cedimenti improvvisi. Nemmeno nella stufa funziona a dovere, brucia male e rende poco, salvo emanare con la combustione un forte odore di fico, non sempre gradito.
Meriterebbe più rispetto e considerazione questa antichissima pianta. E maggiore apprezzamento in cucina il suo frutto, che a dire il vero è un falso frutto, un “siconio”: i frutti veri e propri sono i semini. La pianta può produrre una o due volte l’anno: una prima volta a inizio estate, con i fioroni, una seconda a fine estate con i fichi veri e propri. I fioroni sono di dimensioni maggiori, un po’ meno saporiti, ma di bell’effetto. Esistono moltissime varietà di fico: la buccia varia dal verde chiaro al viola, passando per tutte le sfumature intermedie. La polpa varia dal rosato al rosso ciliegia. È ricco di vitamine A e del gruppo B e di sali minerali (potassio, ferro e calcio). È piuttosto nutriente e abbonda in zuccheri. La cucina odierna lo impiega in vari dolci e conserve, ma lo accompagna preferibilmente ad alimenti salati, e in particolare al salame, ai prosciutti e ad altri insaccati saporiti. Sul solco di una tradizione che affonda le radici nell’antichità classica, vale la pena provare accostamenti anche più arditi e nobilitanti: con fegato, coniglio o anatra, arrosti di maiale. Con buona pace di chi afferma: “non vale un fico secco”.