Generazione Z, consumi e nuove generazioni

Il vino italiano sta beneficiando di un momento di crescita su tutti i mercati. C’è però da chiedersi quanto siano solide le posizioni fino a qui conquistate. Che dire delle nuove generazioni? I vignaioli sono sintonizzati e comprendono gli interessi dei giovani consumatori?

Marco Negro Dicembre 2021
Generazione Z, consumi e nuove generazioni

Eventi nemmeno lontanamente immaginabili solo due anni fa hanno tenuto in fibrillazione i produttori. Tra le altalenanti minacce di improvvisi dazi da parte dell’amministrazione Trump e le incertezze della Brexit, arrivava la prima pandemia nell’era della globalizzazione.

Il consumo medio di vino ha retto, anche se a scapito di un travaso di fatturato dal settore “fuori casa” a favore della distribuzione organizzata. Da alcuni mesi si riaprono bottiglie nella ristorazione, mentre le vendite sugli scaffali continuano a crescere in tutti i segmenti, incluso quello dei prezzi medi. Incombono però nuove minacce: il risveglio dell’inflazione e un consistente aumento di prezzo per tutti i vini. Le ragioni sono da ricercare nella scarsità dell’ultima vendemmia, così come pure nei notevoli rincari di materie prime, energia e trasporti.
In questo scenario di nuove incertezze, possiamo almeno considerare consolidate le attuali vendite?

Il ricambio generazionale
Il tempo scorre in una sola direzione; sempre in avanti. I sociologi hanno utilizzato espressioni diverse per indicare l’inesorabile ringiovanimento della società consumistica. Ad una certa “generazione X” fece seguito quella “Y” e ora la “Z”. Gli appartenenti a quest’ultima generazione stanno entrando man a mano nell’età adulta. Sono giovani donne e uomini che si stanno per laureare, iniziando così a porre le basi della loro carriera lavorativa. Loro intanto consumano, maturano opinioni e promuovono tendenze: tutti insieme contribuiscono a delineare il gusto tipico della loro generazione. Sociologi e pubblicitari tengono monitorato il progressivo ingresso dei giovani nella società consumistica analizzando le loro scelte, forti dei nuovi strumenti digitali.

Attraverso lo smartphone non effettuiamo solo acquisti; manifestiamo anche i nostri interessi e il relativo livello di partecipazione e coinvolgimento. Più subdolamente, dalla nostra tasca, i dispositivi elettronici consentono la localizzazione e l’ascolto ambientale, permettendo ai pubblicitari lo sviluppo di nuove tecniche di marketing personalizzate. Qual è il posto del vino italiano in questo scenario?

Una cosa è certa. Molte regioni vitivinicole si sono già accorte, a loro spese, di essere rimaste ancorate ai consumi di una generazione ormai matura e di non aver attratto giovani consumatori. Marsala e Vermouth di produzione industriale sono rimasti fermi nella dispensa di qualche anziana zia. I vini rossi dal forte sapore di legno, quelli che qualcuno scherzando chiamava “i vini parquet”, sono una Polaroid degli anni Novanta, quando i vignaioli italiani inseguivano il gusto del palato nordamericano. La dolce vela dell’Asti Spumante aveva il vento in poppa nella Germania degli anni Ottanta e Novanta, così come nella Russia dell’ultimo decennio. I consumi di Asti Spumante sono ancora importanti in quelle nazioni, ma non coinvolgono più i giovani; insomma, bere Asti Spumante non è più considerato “cool” tra i tedeschi e i russi delle generazioni Y e Z.

Il logorìo delle denominazioni sui mercati esteri
Capita pure che alcuni mercati finiscano per logorare certe denominazioni. Prendiamo ad esempio il Regno Unito e i paesi del Nord Europa, dove ciclicamente si ripropone la inarrestabile ascesa nella domanda di un certo vino italiano, cui segue un periodo di stabilizzazione e presto un crollo nella reputazione e nell’interesse. Le catene di distribuzione esasperano la competizione tra gli imbottigliatori, concludendo anno dopo anno contratti a prezzi sempre più bassi, addirittura ricorrendo alle famigerate aste al ribasso.
I volumi di esportazione sono certo in crescita, ma accade anche il fenomeno del logoramento della denominazione. Quel vino si ritroverà ad essere acquistato solo più in virtù del suo basso prezzo. Nel Regno Unito accadeva venti anni fa con il Soave e nemmeno dieci anni fa con il Pinot Grigio. Speriamo tutti che la stessa sorte non tocchi ora al Prosecco!

Cosa succede ad una denominazione che vede perdere la sua reputazione? Perché non interessa più alle nuove generazioni? Sono i giovani consumatori a rifiutare il vino scelto dalla generazione dei padri? È stata la perdita di reputazione a tenere lontane le nuove leve? A questo punto c’è da interrogarsi sul ruolo dei tanti “consorzi di tutela e promozione”, che hanno nella loro ragione d’essere appunto la salvaguardia dell’opinione dei consumatori verso la denominazione. È comprensibile che questi enti istituzionali non possano impedire la libera economia di mercato, né bloccare i fenomeni speculativi della grande distribuzione. Ma riescono a trasmettere il valore della filiera agricola del vino? Potrebbero informare il consumatore, ad esempio, sui costi di una bottiglia prodotta nel rispetto etico del vigneto e del vignaiolo?

Le denominazioni che hanno ormai “bruciato” la loro immagine sono molte, a partire dal Chianti, il vino rosso italiano più conosciuto nel mondo. Altri fenomeni simili stanno accadendo con la vendita a prezzi modestissimi, che rasentano l’indecenza, di Barolo e Amarone in Danimarca. Lo stesso si verifica per i vini pugliesi in Vietnam e in generale in tutto il Sud Est Asiatico. C’è il rischio che questa deriva coinvolga anche gli enormi volumi di Moscato d’Asti Docg venduto negli Stati Uniti e in Corea. Le singole aziende agricole, se orfane di una reputazione difesa collettivamente, devono ripiegare sulla narrativa aziendale e familiare. Altre intraprendono un loro percorso di rivendicazione e comunicazione della peculiarità delle sottozone.

Il peso della narrazione dei valori aziendali
Come per qualsiasi prodotto della filiera alimentare, anche per una bottiglia di vino da azienda agricola, l’apprezzamento passa per la narrazione dei suoi valori. Quanto accaduto ad alcuni vini dalla reputazione ormai appannata ci ricorda che non è sufficiente divulgare le caratteristiche di un vitigno e l’unicità di un terroir. Entrano in gioco anche aspetti culturali, che più di altri devono essere trasmessi alle nuove generazioni di consumatori. Pensiamo ai ventenni italiani; la stragrande maggioranza di loro trova ormai le proprie radici contadine solo se risale indietro fino ai propri bisnonni. Troppa distanza pure tra i nonni che acquistavano il vino in damigiana e loro che apprendono i descrittori del vino da una “app”.

Purtroppo, i programmi scolastici non includono la narrazione della filiera agricola di pasta, pane, olio, carne e vino. La responsabilità non assolta dalle famiglie e dal sistema scolastico andrebbe colmata da chi si occupa di divulgazione. Questi stessi valori dovrebbero pure essere condivisi con i compratori delle catene e degli importatori. Spiegare il concetto di equa remunerazione delle aziende agricole a conduzione familiare aggiunge un mattoncino alla formazione culturale delle giovani generazioni. Questa tutela e promozione dei processi agricoli nei vigneti, oliveti e allevamenti del Bel Paese avrebbe evitato il logorio di alcune delle produzioni agroalimentari italiane, scivolate purtroppo nello scaffale dei prezzi bassi.

Analizzare e intercettare i temi a cui sono sensibili i consumatori della “generazione Z” è materia degli analisti delle vendite. Quali sembrano essere le tendenze verso cui i nuovi clienti del vino italiano manifestano interesse? Per dirla con un termine di marketing, quali sono i topic trend delle generazioni “Y” (i nati dagli anni ‘80 al 2000) e “Z” ( i nati dopo il 2000)?

Una tendenza di consumo consolidata è senza dubbio quella dei vini biologici, più propriamente “organic”. Ancora in crescita i consumi di vini rosati e di tutta la categoria degli spumanti di facile interpretazione, adatti soprattutto come aperitivo. I consumatori tra i venti e i quarant’anni stanno manifestando molta attenzione al termine “sostenibile”. Le cantine più grandi lo hanno notato ed è scattata la corsa all’accreditamento presso gli enti di certificazione. Il tempo ci dirà se si tratta di una moda passeggera, di vera consapevolezza o di una semplice leva economica per spuntare prezzi più remunerativi. Rimaniamo in attesa del nome che i sociologi daranno alla prossima generazione di consumatori.

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