Caluso Passito, l’oro nel calice

Tra le morene del canavese, terre di una ninfa nata dall’abbraccio tra Alba e Sole, si sviluppa l’ambiente ideale per un vino che gode del lento appassimento nelle passitaie…

Flavio Boraso Novembre 2020
Caluso Passito, l’oro nel calice

L’Albalus, uva bianca così detta come Alba Luce, perché biancheggiando risplende, fa li grani grossi e rotondi, folti e copiosi. Ha il guscio, o sia scorza, dura; matura diviene rostita e colorita e si mantiene sulla pianta assai. È buona da mangiare e a questo fine si conserva; fa vini buoni e stomacali (digeribili)”. In queste poche righe del gioielliere e consigliere del gusto di casa Savoia, Giovan Battista Croce (1606) è sintetizzata l’essenza dell’uva Erbaluce e delle sue peculiarità.
A partire dalla leggenda dalla quale parrebbe essersi generata, quella che narra come da una lacrima della bella Albaluce (la ninfa nata dall’abbraccio tra Alba e Sole), che spesso passeggiava sulle rive del lago di Candia, nacque l’uva Erbaluce, ricca, polposa, la quale appunto, quando matura, si accende con i raggi solari di riflessi caldi e luminosi.

L’uva tipica del Canavese
Oltre la leggenda, va ricordata la stretta correlazione tra questa uva e il suo territorio (il Canavese), tant’è che prima del Croce e fino ai nostri giorni non vi sono dubbi che l’uva bianca di questa zona sia l’Erbaluce; pianta rigogliosa, allevata a “pergola calusiese” (una sintesi tra gli antichi alteni e le diffuse spalliere) produce un grappolo di media grandezza, compatto dagli acini grandi che maturano mediamente nella terza decade di settembre. Da sempre è utilizzata come prodotto fresco perché proprio grazie alla sua scorza dura, si conservava bene in cascina anche mesi dopo la vendemmia, o, in subordine, vinificato verso fine inverno come “vino greco”, l’attuale passito.
Il vino Erbaluce di Caluso, come oggi noto, è invece relativamente recente; inizialmente era destinato all’autoconsumo, derivante dalle uve di seconda scelta, poco adatte all’appassimento.
Dagli anni’80 del Novecento invece anche il prodotto secco, fermo o spumantizzato è sempre cresciuto, fino a relegare in una preziosa nicchia lo storico passito.
Anche se nel Canavese, una bella zona a nord di Torino, tra la Valle d’Aosta e la provincia di Vercelli, caratterizzata dalle colline moreniche che circondano Caluso ed Ivrea, la vite è storia, poco si sa dell’origine del liquoroso, dolce, prodotto dell’appassimento dell’Erbaluce.
A parte i frammenti precedenti, è noto che attorno al Mille si producesse su queste colline un “vino greco”, la cui importanza per l’economia locale è ricordata in molti atti custoditi presso l’archivio vescovile di Ivrea o negli annali dei borghi canavesani. Ad esempio, in numerosi contratti agrari riguardanti i vigneti di Roppolo e Viverone, veniva inserito che il canone annuale fosse saldato proprio con il vino da essi prodotto. Un vino dolce ed alcolico, che nei secoli a seguire sarebbe passato sulle mense di Papi (lo ricorda come “molto perfetto” Sante Lancerio bottigliere di Papa Paolo III Farnese) e Re, in ultimo proprio i Savoia, come Vittorio Emanuele II che lo definiva “nettare spiritoso”. Dopo l’ampelografo settecentesco, conte Giuseppe Nuvolone, ne scriveranno altri ricercatori, come il conte Leopoldo Incisa della Rocchetta (entusiasta per il suo “sugo dolce assai gradevole”), e nell’800, Lorenzo Gatta, che la incluse tra le uve rare come “uva rustìa” o “bianca roustì” per via del colore ramato che assumono gli acini in maturazione.

Un ambiente assai favorevole
Al di là degli aspetti storici e leggendari, la grande qualità e le caratteristiche dei vini di Caluso derivano innanzitutto dalle particolari condizioni locali, sia climatiche che pedologiche. Qui il territorio è in gran parte collinare, dolci e lunghe colline di origine glaciale, dette morene, costituite da sabbia argillosa e ciottoli derivanti dal ritiro dei ghiacciai che scendevano dalle Valle di Aosta. È un terreno particolare anche grazie al precedente ritirarsi del mare Padano come testimoniato dai molti fossili marini presenti nel terreno; la sabbia garantisce alla vigna un buon drenaggio, l’argilla gli elementi nutritivi, mentre i ciottoli sono fondamentali per la termoregolazione disperdendo gradualmente il calore assorbito nelle giornate calde.
Sulla resa vinicola, certo non irrilevante è l’aspetto microclimatico, molto condizionato dalla chiusura a nord della spettacolare Serra di Ivrea, oltre alla regolazione termica cui contribuiscono i laghi della zona (Viverone in particolare). Inoltre, le caratteristiche del grappolo e dei suoi acini dalla buccia dura permettono il prolungarsi dell’appassimento senza troppe paure del marciume.
Ritornando alla tradizione, è curioso registrare come, verso fine’800, in pieno boom anche nel Canavese dell’allevamento del baco da seta, molte cascine vennero elevate di un piano per ospitare i tavoloni dove alimentare i bachi. In una sorta di economia circolare, gli stessi supporti venivano usati per l’appassimento dell’uva, che avveniva da ottobre a marzo, non sovrapponendosi con l’allevamento dei bachi. Erano locali arieggiati naturalmente e questo favoriva l’appassimento dei grappoli appoggiati sui graticci, o appesi a uno a uno lungo dei fili tesi tra un capo e l’altro del locale, tecnica progressivamente abbandonata, come mai decollata è stata quella dell’appassimento in vigna, di più difficile gestione.
Pur avendo affinato le tecniche della produzione a garanzia di un altissima qualità del prodotto, ora come allora il lento appassimento nelle passitaie perdura fino a febbraio-marzo, accompagnato dal certosino lavoro della mondatura, ossia l’eliminazione degli acini colpiti da marciume.

Il percorso produttivo ed economico
Durante la vinificazione (si tratta di Erbaluce in purezza) mediante diraspatura si ottiene un mosto denso, bruno, a elevato tenore zuccherino e bassissima resa (per ottenere un ettolitro di mosto occorrono almeno 400 chili di uva). Di qui inizia il lento percorso di fermentazione e maturazione in botti di legno per almeno 3 anni (4 per la versione Riserva), accompagnata dal saggio rituale dei travasi: l’ulteriore concentrazione porterà in bottiglia poco oltre il 20% del peso dell’uva fresca
Il prodotto finale conserva la fragranza dell’uva di origine e, con il passare degli anni, si fa sempre più suadente e delicato. L’Erbaluce di Caluso Passito è una delle chicche dell’enologia piemontese, erede della storica viticoltura canavesana. In questa veste tradizionale, l’Erbaluce mostra tutto il suo valore e le sue potenzialità: giallo oro, anche passionalmente ambrato, profumo elegante, etereo, sapore dolce, giammai stucchevole, che ricorda la confettura, la frutta passita e candita. Poterlo degustare anche dopo 30,40 anni con grande soddisfazione testimonia la sua grandezza.
La storia, la poesia, sono certo importanti, ma per chi ha creduto in questo prodotto ci sono alcune tappe sostanziali che contano. Dopo 43 anni dal primo disciplinare della Doc (eravamo nel 1967), e dopo vari aggiustamenti, dopo che nel 1986 nasceva il Consorzio di Tutela, nel 2010 è giunto il riconoscimento della Docg “Erbaluce di Caluso” o “Caluso” (Decreto 8 ottobre 2010).
Oggi quella dell’Erbaluce è una piccola ma consolidata realtà, con i suoi poco meno di 250 ettari vitati suddivisi in 32 comuni della provincia di Torino, uno in quella di Vercelli (Moncrivello) e tre in Provincia di Biella (Roppolo, Viverone e Zimone) per una produzione media annuale di circa 1.400.000 di bottiglie. Poco meno di 400 ettolitri sono quelli di Caluso Passito, piccole preziose bottiglie che riscontrano il piacere dei migliori palati nazionali e internazionali.
Al di là delle altre apprezzate versioni ferma e spumante, l’Erbaluce di Caluso Passito è una delle chicche più interessanti dell’enologia piemontese di nicchia. La lenta vinificazione ed affinamento lo renderà commercializzabile dopo almeno tre anni dalla vendemmia (quattro nella versione riserva). In questa veste, l’Erbaluce mostra il suo valore assoluto: giallo oro, anche passionalmente ambrato, profumo elegante, che ricorda la frutta stramatura (albicocche, prugne, fichi), sapore dolce, mai stucchevole, richiama la confettura, la frutta passita e candita.
Con gli anni il tempo affinerà questo nettare, che potrete degustare anche dopo 30,40 anni con grande soddisfazione.

La tavola del Caluso Passito
La sorte del Caluso Passito è quella di essere compagno ideale sia per i formaggi anche dal sapore molto intenso, gli erborinati o le forme stagionate provenienti dalle vicine Valle Sacra o Valchiusella, sia per i dolci: le paste secche di meliga, i canestrelli, i torcetti di Agliè, magari intinti del passito stesso, o in un ipercalorico, ma soave, zabaione al Caluso Passito.
Non è da trascurare neppure da solo ad accompagnare un momento rilassato di fine o fuori pasto. Va gustato, però, in piena tranquillità, quando saprà narrare di dame e cavalieri, di sentori quasi esotici che vi porteranno lontano, delle sue radici profonde, di una lunga, millenaria storia.

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