Per chi, come noi si occupa di cibo dal punto di vista della ragione delle cose, cioè del perché mangiamo quel che mangiamo, l’argomento è sfidante.
I numeri non dovrebbero spaventarci, se pensiamo, ad esempio, che oggi in Italia vivono il doppio delle persone rispetto a un secolo e mezzo fa, eppure le condizioni di vita sono decisamente migliori rispetto a quelle dei nostri antenati, sia dal punto di vista economico che sanitario.
Ma il modello di sviluppo delle società occidentali industrializzate è oggi messo in discussione per i risultati catastrofici ai quali sta portando soprattutto sul piano ambientale e la produzione animale così come l’agricoltura intensiva sono sotto accusa.
Ma il vero paradosso è che siamo arrivati a sterminare intere foreste per produrre quantità sempre maggiori di mais o di soia, cibi già di per sè utili all’alimentazione umana, per destinarli invece ad allevamenti animali sempre più intensivi.
Comprensibile che la carne piaccia più della soia alla parte più fortunata del mondo, ma una strategia alternativa va trovata. Qualcuno ci sta già pensando. E l’hamburger è il suo vessillo.
Sì, perché sembra che tutto ciò che si può mangiare di alternativo alla carne debba avere questa forma. Una fettina è una fettina ed è evidente che deriva da una coscia. L’hamburger no, è un passepartout. L’hamburger è semplice, premasticato, non assomiglia al prodotto originale. Dunque neppure le sue imitazioni debbono rappresentare nella forma ciò di cui sono fatti.
Tra burger veg e carne coltivata in vitro
Da un lato c’è l’industria del “ready to eat” vegetale che ha trovato un filone d’oro strizzando l’occhio a vegetariani e vegani con la produzione di burger a base per lo più di legumi diversi.
Un affare da 385 milioni di euro, secondo Unionfood, l’associazione dei produttori industriali di settore, che ha registrato un aumento del 3,7% nel 2020 del consumo di prodotti a base vegetale e che segnala come quasi 1 italiano su 3 (il 29%) si dica intenzionato a introdurre i burger veg nella propria dieta. In realtà i vegetariani e vegani nazionali sono meno di 5 milioni, ma le persone che negli ultimi anni, complice la pandemia, hanno aumentato i consumi di alimenti vegetali sono oltre 22 milioni (circa il 43% della popolazione). I ricercatori li chiamano “flexitariani” e sono coloro che hanno deciso di ridurre il consumo di proteine animali per motivi principalmente salutistici, ma anche perché convinti di dare una mano all’ambiente. Sarà, ma perché chiamarli burger? Che bisogno c’è di sfruttare quello che le associazioni della filiera della carne chiamano con irritazione “meat naming” (notorietà della carne)?
Dall’altro lato c’è la proposta – a noi sembra ancora un po’ “frankensteiniana”, ma ha debuttato già nel 2013 – della carne bovina coltivata, anche questa proposta sotto forma di burger.
Realizzata in vitro, in una soluzione nutriente, a partire da alcune cellule di mucca, promette di ridurre notevolmente gli impatti negativi della produzione industriale di carne bovina che, secondo le fosche previsioni dei suoi sostenitori, dovrebbe mettere una pezza all’incremento di consumo globale di carne previsto del 40-70% entro il 2050.
Qui ad insorgere è stata la Coldiretti dal palcoscenico di Tuttofood a Milano, denunciando i 2 milioni di euro di fondi europei React EU destinati a due aziende ormai famose del food tech (le olandesi Nutreco e Mosa Meat) pare per promuovere la trasformazione del sistema alimentare per combattere la crisi climatica. Parola di Leonardo Di Caprio, famoso attore americano che di una delle due aziende è testimonial e consulente, ma anche investitore. D’altra parte, secondi uno studio della McKinsey, la carne sintetica è destinata a diventare un business da 25 miliardi di dollari entro il 2030.
Il dilemma dell’onnivoro
Il dilemma dell’onnivoro forse non è più quello preconizzato da Michel Pollan nel suo famoso libro, ma quello di decidere a quale delle nuove scelte affidarsi per sentirsi un responsabile abitante del pianeta. Certo la scelta del burger veg è decisamente la più facile, anche se chi apprezza il gusto della carne difficilmente trova soddisfazione nelle alternative vegetali.
Nonostante gli sforzi per farle assomigliare alla carne vera – il succo di barbabietola va alla grande per colorarle – le preparazioni vegetariane spesso mancano di succosità e di consistenza; per legare gli ingredienti, trattandosi per lo più di leguminose – che sono farinose – e per dare loro una sensazione di grassezza si usano grassi come l’olio di girasole, quando non l’olio di cocco (ricco di grassi saturi) e altri, ma anche il gel di psillio. Inoltre contengono spesso una percentuale elevata di sale, anche 1,5 g per singolo pezzo e un numero indefinito di insaporitori diversi. Insomma si tratta di alimenti parecchio “processati” industrialmente.
Della carne prodotta in laboratorio da cellule staminali immerse in sieri animali, composti proteici ottenuti dal sangue di feti bovini (ma si sta già provando a sostituirli con nutrienti sintetici o sieri di origine vegetale) coltivate all’interno di appositi bio-reattori, diciamo solo che in realtà non si tratta di un vero e proprio muscolo, ma di fibre coltivate individualmente che imitano la consistenza di carne macinata. Certo la coltivazione di carne in bioreattori sterili ci potrebbe mettere al riparo da antibiotici e antimicrobici, ormoni della crescita e tranquillanti, talvolta presenti nelle carni da allevamento intensivo e forse anche dalla trasmissione di virus, batteri e parassiti animali.
Quello che non ci lascia tranquilli è che un paio dei più grandi produttori di carne bovina degli USA, proprietari di sterminati allevamenti e causa principale dei problemi che si discutono, abbiano partecipato al più grande giro di finanziamenti per un’azienda californiana di carne coltivata. Appunto.
La degustazione
Parlarne va pur bene, ma poi bisogna anche assaggiare, per capire come impattano al nostro palato diversi tipi di alimenti proteici sostitutivi della carne. Così abbiamo degustato per voi tre tipi di burger essendo la forma più diffusa nella presentazione di questo tipo di cibi. Logicamente non si tratta di un confronto tra prodotti omologhi presenti sul mercato e non ha altro intento che quello di dare informazioni sulle loro qualità organolettiche.
Hamburger di carne bovina: l’aspetto, a crudo, è ovviamente colorato e invitante. Abbiamo assaggiato un burger di sola carne, senza nessuna aggiunta di altri ingredienti o di sale. Passato alla piastra presenta una consistenza compatta, ma cedevole, cotta “à point” rimane sugosa e lascia la bocca pulita. La leggera crosticina esterna data dalla piastra è piacevole e non amara. Il sapore è nitidamente…di carne! Senza interferenze di altri sapori.
Burger di proteine dei legumi: l’aspetto è dorato, essendo un prodotto già precotto. La confezione indica anche un numero consistente di ingredienti oltre a quelli base (fagioli, farro, semi e olio di girasole). Ad esempio: farina di soia non OGM, glutine di frumento, amido di tapioca, malto d’orzo, lievito di birra, oltre ad aromatizzanti come cipolla, concentrato di pomodoro, spezie, aglio e sale. Scaldato alla piastra tende a sbriciolarsi. In bocca si presenta saporito con una crosticina dorata invitante e qualche fagiolo intero. Il sapore ricorda il gusto di una crema di legumi. Il boccone è friabile, poco masticabile e lascia la bocca un po’ impastata.
Burger di seitan: il colore è marrone, decisamente poco invitante. La confezione lo indica come concentrato di proteine vegetali da farina di grano tenero. Contiene in pratica glutine allo stato puro. Pochissimi i grassi e il sale (il tenore finale è di 0,6 g x 100 g di prodotto), i soli ingradienti sono farina, acqua, salsa di soia (ma non viene indicato se OGM o no) e zenzero. Passato alla piastra diventa ancora più compatto e la consistenza risulta simile alla lingua bollita. Il sapore è neutro, con lievi accenni di tostato. Al palato ha consistenza gommosa, resistenza elevata alla masticazione, retrogusto tendenzialmente acido. Ma esistono sul mercato prodotti che promettono una perfetta imitazione del gusto di pollo.
Non siamo riusciti a procurarci un hamburger di carne bovina coltivata per il nostro assaggio, ma ci ripromettiamo di farlo appena avrà raggiunto costi abbordabili.