Alla luce di tutte le innovazioni metodologiche, poi diventate insostituibili realtà tecniche e produttive, che aveva proposto e attuato, in tempi non sospetti per far uscire l’enologia piemontese – lui preferiva limitarsi a quella albese – dall’immobile pantano in cui era finita subito dopo la seconda guerra mondiale, ci sarebbe da dire: averne di visionari e sognatori così! E benvenuti in questo caso anche i rompiscatole.
Stiamo parlando, per chi non lo avesse già intuito, di Beppe Colla, scomparso a metà Gennaio del 2019 all’età di 88 anni. Un uomo di Langa come pochi, legato alla sua terra in modo indissolubile, ma intellettualmente cittadino del mondo e dunque aperto a tutto ciò che poteva migliorare il sistema enologico locale e la relativa commercializzazione dei suoi prodotti. Ne risulta così a tutto tondo la figura di un instancabile innovatore, capace di affrontare con innata schiettezza (emblematico in tempi recenti il giudizio sul Moscato secco: “in termini enologici, il moscato secco è la bestemmia più grossa che possa esserci”) i non pochi pareri contrari che regolarmente caratterizzavano le sue prese di posizione e le appassionate “prediche”.
Una fede, quella nell’innovazione, nel progresso e nello sviluppo del sistema vitivinicolo, che si evidenziò già in giovanissima età e che tenne ben salda fino ai suoi ultimi giorni.
Il battesimo nel vino
Erede di una famiglia che da tre secoli si occupava di vino – è accertato che già agli inizi del ‘700 i Colla coltivassero moscatello, in quel di Castiglione Tinella – Beppe Colla era nato l’8 settembre 1930, figlio di Pietro, per anni apprezzato moscatista e “champagnista” alla Gancia di Canelli, sotto la guida di tre “giganti” dell’epoca come Pietro Gallese, Carlo Mensio e Giacinto Strucchi.
Il vino dunque nel sangue, il moscato soprattutto che, a fronte delle grandi battaglie da lui intraprese per la valorizzazione dei grandi rossi di Langa, restò paradossalmente il vitigno più amato: leggendario, nei ricordi che amava tramandare agli ospiti della sua azienda, l’episodio secondo il quale sarebbe caduto da bambino in una vasca di mosto di moscato ricevendone un indelebile battesimo laico. Il percorso scolastico non poteva dunque che puntare al diploma, ottenuto a pieni voti, presso la mitica Enologica di Alba nel 1949 – lo stesso anno in cui nasceva il fratello Tino destinato ad accompagnarlo nell’avventura dei Poderi Colla – con quasi immediata assunzione alla più importante azienda vinicola albese del tempo, la Bonardi. È proprio qui che, ventenne, comincia la sua “carriera” di innovatore, tanto coraggioso quanto spericolato, partendo dalla durata del periodo di fermentazione-macerazione delle uve più nobili del territorio, quelle di Nebbiolo destinate a diventare Barolo.
“Durava più di due mesi” era solito ricordare in una delle tante improvvisate “conferenze” che teneva in età ormai matura nella sala degustazione della Poderi Colla “e alla fine la quantità di tannini risultava eccessiva e paradossalmente il colore perdeva parte della sua carica“.
Beppe pensò quindi di ridurre quei tempi e dovette faticare le proverbiali sette camicie per convincere Felice Bonardi a fare almeno una prova. Ottenne così di “sperimentare” su 50 dei mille quintali di uve che l’azienda lavorava ogni anno. Dopo una macerazione di 18 giorni, i risultati furono per certi versi spettacolari e da quel momento non si parlò più di macerazioni lunghe, nè alla Bonardi, nè, con il tempo, nelle altre aziende vinificatrici della zona.
L’esperienza borgognona da cittadino del mondo
La sua carica innovatrice, dovuta anche all’attenta analisi del sistema vino dell’Italia postbellica, considerato fermo al “medioevo” e bisognoso di una profonda ristrutturazione, trovò numerose e autorevoli conferme nei due viaggi in Borgogna del 1953 e 1954 organizzati insieme ad un altro intraprendente personaggio del vino piemontese, Arturo Bersano, di Nizza Monferrato, anch’egli alla ricerca di nuovi orizzonti per quella che sarebbe diventata una delle aziende produttrici più importanti della regione.
L’esperienza borgognona fu per Beppe Colla illuminante e decisiva, addirittura entusiasmante a sentirla raccontare in prima persona con la voce che quasi si incrinava nel ricordo di momenti indimenticabili della propria vita. In Borgogna Beppe aveva trovato, tra molte novità tecniche e di coltivazione, tanti giovani impegnati nelle vigne, un lavoro di cantina di grande accuratezza, i sommeliers che verificavano la congruità del vino e lo degustavano prima di servirlo, tappi e affinamenti assai diversi da quelli in uso in Langa. Insomma non solo una rivelazione, ma una quasi rivoluzione.
Accadde così che appena tornato dalla Francia diede vita, tra lo stupore generale e non poche dichiarate contrarietà degli altri produttori, ad una serie di innovazioni che sarebbero state alla base della moderna vitivinicoltura nazionale: una sorta di eretico – e infatti abbandonato quasi subito per riprenderlo tre decenni più tardi – uso della barrique borgognona, tappi più lunghi e di diametro minore rispetto ai nostrani, affinamento del vino in bottiglia, rigorosamente coricata, invece che in piedi e, per finire, la data dell’annata in etichetta anziché sulla pur scenografica lunetta facilmente “deperibile”.
Gli anni memorabili dell’ascesa imprenditoriale
Furono anni memorabili e non solo per le innovazioni che via via stava proponendo con successo, ma anche per la sua storia imprenditoriale: nel 1956 rileva la storica, piccola, ma prestigiosa azienda Prunotto alla guida della quale non solo avvierà, nel 1960, una instancabile campagna per la delimitazione delle zone maggiormente vocate alla produzione di determinati vini, elaborando bozze di disciplinari che saranno, tra gli altri, alla base, per la famosa legge 630 sulle Doc e nel 1961, tra lo stupore, ancora una volta, di gran parte dei suoi “colleghi” (molti dei quali gli riservarono critiche anche piuttosto aspre) iniziò a vinificare separatamente le uve provenienti da specifici appezzamenti di terreno: quelli che per i francesi erano i “crus” e dalle nostre parti ancora dei quasi perfetti sconosciuti. Crus che finirono subito in etichetta diventando nel tempo delle sorte di totem come il Barolo Bussia 61, il Cannubi e così via. E infine, ultima ma non ultima, la decisione nel 1981, al tempo quasi un’eresia, di diradare le uve nelle annate troppo abbondanti. Una presa di posizione che all’epoca non contribuì a fargli molti amici, ma che oggi nessuno si sognerebbe più di contraddire.
Una vita ricca di idee e fatti fuori dal coro, per i tempi in cui furono proposti, che non gli impedirono però di diventare un riconosciuto “Maestro” del territorio fondando nel 1967, insieme all’amico Luciano De Giacomi, l’Ordine dei Cavalieri del Tartufo e dei Vini di Langa, promuovendo l’istituzione dell’Enoteca regionale del Piemonte nel castello di Grinzane Cavour, sostenendo il progetto delle Strade dei vini d’Alba e, in tempi più recenti, la creazione della Doc Langhe.
Tutto questo badando sempre, da una parte, alla necessità di valorizzare, come la qualità di certe uve meritava, il territorio da cui provenivano, assumendo anche per qualche anno, dal 1985 al 1988, la presidenza del Consorzio di tutela del Barolo, del Barbaresco e dei vini d’Alba che aveva fortemente contribuito ad istituire molti anni prima e, dall’altra, a rinforzare e irrobustire la propria azienda.
Venduta nel 1993 alla Illva l’azienda Prunotto che sarebbe poi passata alla famiglia Antinori, fonda l’anno dopo, insieme al fratello Tino ed alla figlia Federica (a cui si aggiungerà in seguito il nipote Pietro) l’azienda vinicola Poderi Colla, alla tenuta Bricco del Drago, a San Rocco Seno d’Elvio, una piccola frazione di Alba. E come se tutto questo non bastasse, l’inestinguibile passione di Beppe per la cucina di territorio sposata ai grandi vini di Langa raccolta, tra sogni e lampi di memoria, nel suo ancor oggi assai godibile “Ricordi di Vini”.