Una volta si diceva che il Barolo era il “re dei vini” e il “vino dei re”. Per questo era considerato così prestigioso da potersi rapportare addirittura con i personaggi regali. Ora che – almeno in Italia – i re non vanno più di moda, è lecito chiedersi che fine abbia fatto questo assioma. La risposta non può che essere una: oggi, il Barolo non è soltanto il “re dei vini” e il “vino dei re”, ma ha acquisito ulteriori certezze e tali riconoscimenti di qualità e prestigio che si riflettono sul valore intrinseco dei terreni, delle uve e dei vini.
Può darsi che ogni tanto questo blasone sia stato temporaneamente offuscato da problemi contingenti, ma l’alternanza di periodi di fulgore e altri di appannamento sta nella natura delle cose.
D’altra parte, tutta la storia del Barolo, per lo meno da quando ha ottenuto dalla legge l’imprimatur di vino di qualità e origine, è costellata di fasi alterne e questo è dipeso non solo da fatti interni al settore, ma anche dalle situazioni del momento, da come, ad esempio, il consumatore percepiva il vino nel rapporto con la tavola e la vita di tutti i giorni.
Se la situazione generale attraversava un periodo felice e ispirato alla crescita, allora anche il Barolo giocava un ruolo dinamico. Ma se c’era una guerra o un evento comunque disagiato e la gente era costretta a cercare soprattutto un minimo di risorse per tirare avanti, allora anche il Barolo passava in secondo piano.
Ciò non toglie che i produttori, soprattutto quelli più lungimiranti, abbiano continuato, anche nei periodi più critici, a pensare al loro Barolo come a un prodotto capace di fare la differenza e di rappresentare un elemento di riscatto appena fossero ricominciati tempi migliori.
Un cammino di resistenza e sviluppo
Ci piace pensare che le vicende del Barolo, soprattutto nell’ultimo secolo e mezzo, siano frutto della tenace volontà e lungimiranza dell’uomo viticoltore e cantiniere e non tanto della fortuna o della positiva alternanza di eventi più o meno positivi.
Infatti, se andiamo indietro nel tempo e approdiamo agli ultimi decenni del 1800, nella realtà del Barolo e, più in generale, del vino italiano, non troviamo tante situazioni positive. Il benessere era di pochi e la stragrande maggioranza dei produttori lottava dal mattino alla sera e da gennaio a dicembre per portare a casa il minimo indispensabile. Il Barolo era tale nella testa di pochi produttori e pochissimi consumatori. Nessuna legge lo tutelava rispetto a qualsiasi normale vino da mensa e così risultava difficile avere successo anche a un prodotto che raccontava le qualità delle colline di Langa.
Tra fine Ottocento e inizio Novecento, sono stati soprattutto gli uomini piemontesi, produttori, studiosi, nobili e aristocratici, insieme a persone altrettanto lungimiranti del vino toscano, a chiedere a gran voce alla politica che venisse varata una legge per tutelare e promuovere i vini di origine. Non necessariamente era un confronto tra collina e pianura. Più probabilmente era una lotta tra zone vocate e altre meno o tra zone di avanguardia e altre più arretrate, dove c’erano risultati qualitativi differenti, ma anche situazioni diverse in fatto di difficoltà di lavoro, costi di produzione e rese unitarie.
Il periodo tra il 1880 e il 1915 è stato di grande fermento per il vino italiano e piemontese in particolare. Ma in quella fase storica ogni richiesta di una normativa a favore dei vini di qualità è naufragata contro un muro di gomma rappresentato dai privilegi delle categorie più forti o anche solo dall’incapacità di vedere ciò che stava capitando nel mondo, in primis nella vicina Francia.
Il periodo successivo tra il 1915 e il 1955-60 ha visto un nuovo arretramento della condizione di vita e di attività anche del mondo vitivinicolo: due guerre mondiali, un governo, quello fascista, più votato alla “battaglia del grano”, una produzione vinicola di media qualità e orientata per lo più al mercato interno a costo di trascurare l’esportazione ritenuta di scarso valore strategico.
Ironia della sorte: un periodo così negativo ha portato in dote la prima legge sui vini di origine, quella sui Vini Tipici di Pregio, varata come Regio Decreto nel 1924 e convertita in legge nel 1926.
Grazie a questa legge nel 1933 il Barolo venne riconosciuto Vino Tipico di Pregio. Era la prima legittimazione ufficiale, dopo decenni di valorizzazione dovuta solo all’intraprendenza di questo o quel produttore o di questa o quella istituzione locale. Né lo stato sabaudo e nemmeno quello italiano avevano fatto passi decisivi nel qualificare produzioni come il Barolo rispetto al mare magnum del vino destinato al consumo quotidiano.
Anche questo provvedimento, tuttavia, era destinato a dare poche certezze al mondo produttivo: la seconda guerra mondiale, intrecciata con quella di liberazione, ha cancellato ogni illusione e così questo piccolo settore economico è arrivato alla soglia degli anni Cinquanta del Novecento con le ossa rotte e poche prospettive di crescita. Ricostruire l’Italia che usciva da un conflitto fratricida non sarebbe stato facile. Bisognava concentrarsi su questo. Il vino di qualità poteva ancora aspettare.
Dagli anni Sessanta, il cambio di passo
Sono stati gli anni Sessanta a portare aria nuova nel mondo del Barolo. Le sollecitazioni che in passato avevano chiesto regole specifiche per i vini di qualità hanno trovato conferma nella legge 930 (12 luglio 1963) che istituiva le Denominazioni di origine. Ma non fu un lavoro facile: molte erano le ostilità che in Italia lavoravano contro tale progetto e solo la ferma convinzione dei fautori della legge, in primis il Sen. Paolo Desana, riuscì a superare le remore e a promulgare la legge.
Alla sua approvazione sono seguiti i primi riconoscimenti di vini a denominazione di origine. Il Barolo è stato uno di questi. Il DPR 23 aprile 1966 ha riconosciuto la Doc al Barolo e il 1° luglio 1980 un nuovo decreto gli ha attribuito la Docg. Due atti legislativi fondamentali, che hanno assegnato al Barolo il valore qualitativo e il pregio che meritava.
Sbagliava chi pensava che questi due riconoscimenti avrebbero creato a favore del Barolo un cammino in discesa verso la sua totale consacrazione. Viticoltori e vinificatori avrebbero dovuto lottare a lungo per vedere riconosciuti l’identità e il valore del loro vino.
E non solo per colpa di eventi deflagranti come le vicende del metanolo (1986). Una situazione gravissima, dalla quale solo la caparbietà dei produttori ha permesso loro di riscattarsi.
Le insidie maggiori, in genere, sono venute dall’interno del settore e, in particolare, dalla dialettica spesso troppo libera tra produzione e mercato che non sempre ha saputo trovare equilibrio ed evoluzione prudenziale.
In alcuni casi, a creare illusione sono bastati i rallentamenti produttivi legati ai fenomeni naturali della minore fertilità di un’annata. Altre volte, c’è stato bisogno di interventi, più o meno condivisi, del settore nella sua globalità per contenere impianti e produzioni e recuperare una buona rispondenza con le potenzialità di domanda e mercato.
La dinamica di impianti e produzioni
Nell’anno di esordio della Doc del Barolo (1967), i vigneti registrati all’Albo interessavano poco meno di 650 ettari, una base vitata destinata nel giro di pochi anni ad avvicinarsi ai mille ettari: nel 1972 i vigneti di Nebbiolo da Barolo contavano 981 ettari e nel 1973 superavano i mille (1.016). Cinque anni dopo (1978), la situazione vitata toccava quota 1.112,62 ettari.
Poi, per quasi vent’anni, il potenziale viticolo del Barolo è rimasto stabile, oscillando tra 1.100 e i 1.184 ettari (1995). Solo raramente, in tale periodo, il Barolo ha superato i 1.200 ettari.
La grande corsa ai nuovi impianti di Nebbiolo da Barolo è iniziata nel 1996, quando sono stati superati i 1.200 ettari (1.239) e, da quel momento, non c’è più stato rallentamento.
Nel 2000 gli ettari hanno varcato la soglia dei 1.300 ettari (1.337,64), l’anno successivo è stata la volta dei 1.400, quello ancora dopo il livello dei 1.500 e così via, incrementando ogni anno la superficie vitata fino a deteriorare il rapporto tra produzione e mercato.
Per contenere lo sviluppo degli impianti del Barolo, nel 2011 il Consorzio Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, in sinergia con la Regione Piemonte, ha avviato una più autorevole gestione della denominazione di origine, limitando a pochi ettari i nuovi vigneti iscritti.
Di fatto, non è stato vietato l’impianto di vigneti a Nebbiolo, bensì la loro iscrizione al potenziale viticolo del Barolo. Non è stata un’operazione facile e nemmeno indolore: molte sono state le proteste dei produttori, che sono arrivate ad accusare il Consorzio di limitare la libertà individuale nello sviluppo aziendale. Dimenticavano che la denominazione di origine è una proprietà collettiva e perciò anche gli animi più accesi hanno dovuto arrendersi di fronte alla maggiore importanza del beneficio collettivo rispetto all’interesse individuale.
I vantaggi per la denominazione non sono tardati a venire: lo si può intuire dall’analisi della Tab.1, alla colonna “Superficie vitata rivendicata”: se tra il 2007 e il 2011 i nuovi impianti hanno portato al Barolo 184 ettari, negli otto anni successivi l’apporto globale è stato di 296 ettari.
Per quanto concerne l’aspetto produttivo, oltre all’influenza del graduale sviluppo dei vigneti, vanno annotati anche gli effetti della maggiore o minore fertilità dell’annata e la presenza di un clima non sempre congeniale.
Tolto di mezzo il 1972, climaticamente annum horribilis, nel quale l’intera produzione del Barolo è stata declassata, tra il 1967 e il 1978 la produzione di Barolo è oscillata tra 4 e 6 milioni di bottiglie.
Nel 1979 sono stati superati per la prima volta i 7 milioni e, da quel momento e fino al 1999, la produzione effettiva è costantemente oscillata sopra e sotto questo livello, con rese molto basse in anni climaticamente impegnativi come il 1984, il 1986 e il 1989.
A superare i 10 milioni di bottiglie è stata l’annata 2004, notoriamente fertile e qualitativamente intrigante. Da quel momento, la produzione effettiva non è più diminuita. Escludendo il 2014 con qualche problema di clima e qualche grandinata, dal 2015 il livello produttivo ha portato 14 milioni di bottiglie, senza più lasciarli.
In sintesi, la produzione media degli ultimi 10 anni (2010-2019) è di 13.569.269 bottiglie.
La gestione della denominazione ha permesso di seguire da vicino anche il volume degli imbottigliamenti, come si può vedere nella Tab. 2.
Un dato significativo è quello del volume imbottigliato medio degli ultimi 10 anni (2010-2019): 12.143.420 bottiglie, inferiore a quello produttivo. Visto che l’imbottigliamento è l’anticamera del mercato, è chiaro come tra produzione e imbottigliamento le differenze siano contenute e come un piccolo impegno potrebbe portare ad un adeguato equilibrio tra i due parametri.
In seguito alla drastica riduzione degli imbottigliamenti del 2018 rispetto al 2017 (circa un milione di bottiglie in meno), il Consorzio ha varato il blocco degli impianti per il Barolo per 2020, 21 e 22. Non si poteva fare altrimenti visto che la leva della produzione è l’unica che il settore produttivo possa influenzare. È più arduo intervenire sui mercati e loro decisioni di acquisto. Si può lavorare con la promozione, cosa che il Consorzio fa già e con efficienza, ma gli effetti sono a lungo termine e possono venir inficiati da eventi collaterali come il Covid 19.
Progettare il futuro
Per dare piena stabilità al Barolo ed evitare le oscillazioni degli ultimi tempi, il settore produttivo deve lavorare per conseguire una gestione più efficace della denominazione.
Cominciamo dall’assetto produttivo. Il blocco degli impianti può aiutare a trovare l’equilibrio tra produzione e mercato. Ma è un intervento i cui effetti si vedranno nel medio periodo.
Per avere efficacia nel brevissimo tempo, poteva essere utile abbinare al blocco degli impianti la riduzione della resa per ettaro, magari tramite la gestione di una specifica “riserva vendemmiale”. Oltre a controllare in modo più rigido la quantità, poteva anche elevare la qualità globale del Barolo. Sta di fatto che, nel periodo post Covid, il Consorzio ha proposto al mondo del Barolo la costituzione di una riserva vendemmiale del 10% del potenziale (800 chilogrammi di uva sugli 8.000 producibili per ettaro), ma l’assemblea dei produttori ha respinto la proposta.
Un passo utile in vista della vendemmia 2020 è stato compiuto con la riduzione dei superi dal 20 al 5%, ma crediamo che una denominazione blasonata come il Barolo dovrebbe fare di più.
Un progetto importante nelle dinamiche di questa denominazione potrebbe essere la cosiddetta “banca del Barolo” a supporto della gestione del vino sfuso, che interessa circa il 30% del vino prodotto. Una concreta ipotesi di lavoro era stata ben illustrata nella fase post Covid, ma la sua attuazione è stata per ora ostacolata dalla posizione negativa di vari produttori.
L’iniziativa, orientata in questa fase al Barolo 2016, poteva portare importanti effetti positivi: togliere Barolo dal mercato, assicurare ai produttori cedenti un prezzo medio orientativo passibile di ulteriori miglioramenti e dare stabilità al mercato. Poteva essere uno strumento di gestione più affinato rispetto ai precedenti, ma anche in questo caso il mondo del Barolo ha preferito rinunciare a percorrere strade nuove.
In prospettiva futura c’è un tassello importante che andrebbe migliorato ed è il rapporto con il Langhe Nebbiolo. Se ad esempio nel Barbaresco questo è oramai un circuito virtuoso che aiuta a ridurre la quantità e a migliorare la qualità, nel Barolo finora si è rivelato un rapporto difficile.
Questo settore non ha ancora metabolizzato la grande opportunità offerta dal Langhe Nebbiolo come strumento di limitazione della quantità ed elemento di crescita della qualità.
Piuttosto di ricorrere al Langhe Nebbiolo facendone un vino giovane e di facile beva, il produttore medio del Barolo preferisce ottenere in ogni caso il primo vino, anche se il suo attuale mercato non sa recepirne interamente la quantità prodotta. Tanto c’è il mercato dello sfuso che tutto recepisce e che in fin dei conti remunera bene anche le produzioni meno intriganti.
Nato per essere un prodotto alternativo al Barolo (e al Barbaresco), il Langhe Nebbiolo sta diventando un vino a disposizione anche di altri interlocutori (es. il Doglianese), che gli stanno dedicando vigneti, risorse e progetti di valorizzazione. Sulla base di questi sviluppi, è probabile che in futuro il Langhe Nebbiolo veda il suo disciplinare evolversi con l’introduzione di nuove tipologie come il Langhe Nebbiolo Superiore e il Langhe Nebbiolo Spumante.
Una scommessa importante è rappresentata dalle MeGA, le Menzioni Geografiche Aggiuntive. Al momento non sono vere e proprie tipologie del vino più generale, ma nel tempo potrebbero fungere da tante declinazioni del Barolo, con le più conosciute qualificabili come specificazioni aggiuntive di grande valore.
C’è un dato importante da tenere in considerazione: nella vendemmia 2018, il 59% del Barolo prodotto è stato rivendicato con il riferimento di una MeGA, mentre il Barolo senza specificazione o con la sola Riserva si è limitato al 41% della produzione.
Inoltre, delle 181 MeGA riconosciute e inserite in disciplinare, ben 153 (l’84% del globale) sono state rivendicate nella stessa vendemmia.
Alla luce di questi dati, si può dire che le MeGA siano state una scelta vincente e con possibili importanti evoluzioni, non ultima quella di diversificarle maggiormente rispetto al Barolo “classico” con una resa per ettaro più bassa se non addirittura trasformare le MeGA di maggiore immagine e mercato in veri e propri vini a sé stanti, anche se di produzione molto contenuta.
Questo limiterebbe il rapporto con il Barolo “classico”, offrendo più spazio e libertà di azione a quel Barolo che oggi sul mercato subisce la concorrenza più spietata e, perciò, raccoglie le quotazioni meno gratificanti.
Ciò che comunque è importante e che i produttori debbono tenere a mente è che non si può dormire sugli allori o cullarsi sui risultati fin qui raggiunti. Guardare avanti e continuare a progredire nell’organizzazione del settore e nella gestione autorevole della denominazione è l’unica strada possibile.