Da sempre, il Barbaresco è l’espressione elegante del Nebbiolo. Lo è grazie a un terreno che unisce la pienezza dell’argilla, la solidità del calcare e le piccole sfumature delle sabbie. Lo è grazie a un clima più mite di altre colline di Langa e a una vicenda produttiva che cammina con la giusta gradualità, limitando gli effetti di un cielo a volte propizio, a volte ostile.
Se il Prof. Domizio Cavazza tornasse in mezzo a noi, sarebbe fiero di come oggi si sta sviluppando la vicenda produttiva del Barbaresco, il vino del quale è stato il “padre putativo”.
Domizio Cavazza veniva da Concordia sulla Secchia, dove era nato il 9 luglio 1856. Sulle colline attorno ad Alba era arrivato a metà del 1881 per dirigere a soli 25 anni (incaricato dal Regio Ministero dell’Agricoltura) la neonata Scuola Enologica. Dopo aver vissuto in Alba e aver visitato un po’ tutti i paesi del circondario nel compiere la sua missione di formatore di una classe vitivinicola che allora era a dir poco impreparata, aveva deciso di stabilirsi a Barbaresco. Qui avrebbe poi comprato il Castello dei Conti Galleani, dove nel 1894 avrebbe costituito insieme ad altri otto viticoltori illuminati le Cantine Sociali di Barbaresco, una delle prime strutture cooperative del Piemonte, l’organismo che avrebbe dato impulso e vitalità a un territorio che era sempre vissuto all’ombra del Barolo al punto da guadagnarsi sul campo il titolo poco onorevole di “fratello minore”.
Oggi tutto è cambiato. Il percorso compiuto da quando la Denominazione di origine controllata ha premiato i due vini (1966), ha di fatto tracciato una nuova identità. Tra Barbaresco e Barolo non c’è più alcun stato di sudditanza: ognuno di loro conduce il suo cammino con orgoglio, delineando in modo strategico il proprio atteggiamento produttivo, normativo, di mercato e di immagine, tenendo conto che parecchi sono gli elementi comuni, il vitigno, i caratteri del suolo e del clima, l’abilità tecnica e professionale dell’uomo in vigna come in cantina.
I segni di una storia di crescita
Abbiamo già ricordato la figura preziosa del Prof. Domizio Cavazza. Nonostante la sua scomparsa in giovane età (nell’agosto del 1913 a poco più di 57 anni), il suo carisma ha tramandato alle generazioni successive i suoi insegnamenti, che predicavano qualità, origine, identità e ricerca del meglio. Non per nulla quelle Cantine Sociali di Barbaresco sono state un esempio autorevole e hanno aiutato tanti piccoli produttori a intraprendere nel loro vino la strada della qualità e dell’origine, anche se il quadro generale italiano non ispirava nulla di favorevole.
Se è vero che il periodo tra il 1880 e il 1915 è stato uno dei più floridi sulle colline del Barbaresco e, più in generale, dell’Albese, è altrettanto certo che i quarant’anni successivi (dal 1915 al 1955) sono stati tra i più drammatici.
Alla Prima Guerra Mondiale, che da queste colline aveva portato a morire nelle terre di battaglia molti giovani viticoltori cresciuti nell’illusione di un futuro proficuo, era subentrato il Ventennio Fascista, politicamente ostile a ogni produzione di qualità destinata al mercato, vino incluso.
Altro che produrre per il mercato, l’agricoltura italiana lo doveva fare per riempire le pance degli italiani. In quel periodo, uno tra i pochi atti illuminati compiuti a favore del vino è stata la legge sui Vini Tipici di Pregio, istituita come Regio Decreto nel 1924 e convertita in legge nel 1926. Questa legge ha permesso al Barbaresco di essere riconosciuto Vino Tipico di Pregio nel 1933, una data strategica, che ha visto delineata per la prima volta la zona del Barbaresco di oggi, con il paese di Barbaresco (che allora includeva anche Treiso e San Rocco Seno d’Elvio) e quello di Neive.
Per il resto, anche la collina doveva contribuire a sfamare le bocche italiane. Così ecco incentivata l’agricoltura mista, che considerava prioritarie anche nelle aziende della zona del Barbaresco le coltivazioni cerealicole e l’allevamento del bestiame rispetto alla vitivinicoltura, accompagnata dalla coltura del nocciolo e di altri alberi da frutta e dall’allevamento del baco da seta.
Ma le vicende negative non erano esaurite: all’appello mancava ancora la Seconda Guerra Mondiale, tristemente intrecciata con quella partigiana. Stavolta, la guerra non avrebbe solo privato le colline della forza lavoro, ma avrebbe portato in loco morte e distruzione perché combattuta anche in queste contrade.
Nel Dopoguerra, la ricostruzione è stata impegnativa. E non solo nei manufatti, nelle coltivazioni e nell’economia. I passi più difficili sono stati quelli della ricostruzione delle coscienze e di quel tessuto sociale messo a dura prova dallo scontro feroce che aveva interessato le comunità, le famiglie, le amicizie.
Quando molti passi erano stati compiuti, nella zona del Barbaresco ci ha pensato il cielo a far ripiombare la viticoltura nella disperazione: il 21 luglio del 1955, una tremenda grandinata ha martoriato il nucleo centrale della zona creando danni così gravi da determinare conseguenze anche nell’annata successiva e da provocare nel solo paese di Barbaresco l’emigrazione verso le città di quasi 300 persone, in pratica il 20% dell’intera popolazione.
La rivoluzione degli anni Sessanta
Il resto è storia recente o, almeno, così sembra. Con l’inizio degli anni Sessanta, pur persistendo una situazione difficile e piena di insidie, è intervenuta una novità sostanziale che ha cominciato a far trapelare un po’ di luce in fondo al tunnel: il 12 luglio del 1963, grazie all’azione tenace di un manipolo di parlamentari illuminati guidati dal piemontese Sen. Paolo Desana, veniva promulgata la legge 930, che istituiva le Denominazioni di origine dei vini. Il fermento fu subito intenso anche sulle colline del Barbaresco e così il 23 aprile 1966 veniva riconosciuta la Doc al Barbaresco.
In effetti, a partire dal 1966 è iniziato un periodo di progresso che dapprima ha rimarginato le ferite e, poi, ha avviato uno sviluppo che poco per volta ha portato certezze, ha dato fiducia e ha consolidato benessere. Se nella seconda metà degli anni Venti del Novecento uno studio della Camera di Commercio di Cuneo aveva indicato nel paese di Barbaresco il nucleo abitato più povero dell’intera “Provincia Granda”, dagli anni Sessanta le cose sono drasticamente cambiate fino a portare queste colline al centro degli interessi dell’intero mondo vitivinicolo.
Il primo periodo, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, è stato di piena esaltazione: la qualità non poteva essere cresciuta molto, ma il fermento era elevatissimo. E c’era un interesse spasmodico da parte del consumo, sia quello intermedio degli operatori economici, sia quello finale dei consumatori. Così l’ubriacatura ha pervaso il mondo produttivo al punto che il 1970 viene ricordato come l’anno in cui è stata messa a dimora la quota maggiore (70 ettari) di impianti di Nebbiolo di quest’area.
Partendo dai 190 ettari iscritti all’Albo del Barbaresco nei primi anni (1966-1968), nel 1973 la superficie vitata atta a produrre questo vino aveva già superato i 400 ettari (403), arrivando a toccare la quota di 471 ettari nella grande annata del 1978. Con minori strappi, ma con una certa costanza, la crescita è continuata anche negli anni successivi, con oscillazioni che hanno fatto toccare la quota di 520 ettari nel 1983. Poi, un mercato che stentava ad ampliare i suoi spazi sia in Italia che all’estero ha di fatto frenato lo sviluppo e la base produttiva del Barbaresco si è poco per volta assestata tra 480 e 490 ettari, complice negli anni Ottanta uno strano disamoramento per i vini di struttura e, in particolare, per quelli del Nebbiolo. Quel decennio è stato forse il più drammatico di tutti i periodi seguiti al riconoscimento della Doc al Barbaresco. Anche il passaggio dalla Doc alla Docg, avvenuto il 3 ottobre 1980, non ha portato subito i benefici sperati. Quello degli anni Ottanta non è stato l’ultimo periodo buio nella storia recente del Barbaresco. Ce ne sarà uno anche all’inizio degli anni Duemila, ma in quel caso la crisi sarà di matrice differente, legata soprattutto allo sbilancio tra offerta e domanda, con la prima in momentaneo eccesso rispetto alla seconda. Negli anni Duemila, però, non sarà mai messo in discussione il valoro tipologico e qualitativo del vino come invece è capitato negli anni Ottanta, quando era più facile vendere 60 bottiglie di Dolcetto d’Alba che 12 bottiglie di Barbaresco.
Lo scatto deciso all’inizio degli anni Novanta
Il cambio definitivo di passo nell’identità del Barbaresco si è avuto in concomitanza con la messa in commercio di tre grandi annate come il 1988, 1989 e 1990. I mercati, in particolare quelli esteri, poco per volta si sono convinti del valore intrinseco del Barbaresco come vino capace di resistere al tempo e, quindi, meritevole di appartenere alla piccola schiera di prodotti che nel mondo hanno nella longevità uno dei caratteri distintivi.
La crescita degli impianti è ripartita in modo spontaneo alla fine degli anni Novanta, quando la domanda di Barbaresco ha ripreso ritmi consistenti: dai 480 ettari del 1998, in circa dieci anni, si è arrivati nel 2007 a 699 ettari, con un incremento di oltre 200 ettari, quasi il 40% della base produttiva iniziale. In quella fase gli scompensi di mercato sono stati evidenti, con effetti negativi sui prezzi delle uve, dei vini sfusi e di quelli in bottiglia.
Poi, poco per volta, grazie soprattutto all’azione propulsiva di mercato esercitata dai tanti produttori legati a questo vino (oggi più di 200), si è tornati all’equilibrio tra offerta e domanda, che ha determinato una nuova fase favorevole a sviluppo e crescita di valore e immagine. Tutto ciò non è avvenuto per caso o solo per l’azione di promozione e di rafforzamento dell’identità esercitata sui mercati. Accanto è stata strategica la sinergia tra la Regione Piemonte e il Consorzio Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani con la gestione dei nuovi impianti che ha contingentato anno dopo anno i nuovi vigneti idonei a produrre il Barbaresco: da 3 a 5 ettari fino (ed è il caso del 2019) a 12 ettari, con aperture limitate anche per il singolo produttore (da 0,30 a 0,50 ettari).
Non è stata questa un’operazione indolore. Anzi, nel settore produttivo si è acceso un forte dibattito tra chi avrebbe voluto una maggiore libertà e chi preferiva una maggiore stabilità a fronte di qualche rinuncia. Ma ogni volta è stata confermata la validità di questa gestione delle superfici vitate, che ha fatto crescere senza scossoni il potenziale produttivo del Barbaresco dai 699 ettari del 2007 ai 763 del 2018. Validità confermata anche dalla crescita in valore delle produzioni, con un incremento graduale e costante del prezzo medio a bottiglia.
Anche la produzione effettiva è piuttosto stabile: negli ultimi 10 anni (2009 – 2018) la produzione media annuale è stata di 4.475.433 bottiglie. Nel periodo, lo scarto massimo è stato registrato tra il 2016 (4.804.880) e il 2017 (4.213.585) e corrisponde a 591.295 bottiglie, poco più del 13% del dato medio annuale.
Le regole della produzione
Le ultime modificazioni sostanziali del Disciplinare del Barbaresco risalgono a due decreti del Ministero delle Politiche Agricole, il primo del 21 febbraio 2007 e il secondo del 16 aprile 2010. Nonostante alcune importanti novità, il Disciplinare del Barbaresco conferma nella sostanza l’impianto normativo già consolidato.
La zona di origine è rimasta quella del 23 aprile 1966, formata dall’intero territorio di Barbaresco, Treiso e Neive e da una parte della frazione di San Rocco Seno d’Elvio della città di Alba, in provincia di Cuneo. La base ampelografica è costituita dal solo vitigno Nebbiolo. L’ipotesi di introdurre piccole percentuali di altri vitigni è stata accantonata, privilegiando il monovitigno, anche grazie al valore assoluto espresso dal Nebbiolo.
La produzione massima a ettaro resta fissata in 8.000 chilogrammi di uva, che – grazie alla resa massima dell’uva in vino del 70% al primo travaso e del 68% a fine invecchiamento – può dar luogo a 5.440 litri e a 7.253 bottiglie da 0,75 litri di vino.
Il Barbaresco ha consolidato nel tempo il suo carattere di vino di struttura e di maturazione. Così, è stato meglio dettagliato il periodo di invecchiamento minimo, fissato in 26 mesi calcolati dal 1° novembre dell’anno di raccolta delle uve. Nove di questi mesi devono trascorrere in legno.
Una precisazione merita la specificazione “Riserva”: il termine può comparire in etichetta quando il vino abbia trascorso in azienda almeno 50 mesi, sempre calcolati dal 1° novembre dell’anno di raccolta delle uve.
Nonostante la situazione climatica favorevole degli ultimi 25 anni garantisca il raggiungimento di livelli alcolici facilmente superiori, la gradazione alcolica minima del Barbaresco resta fissata in 12,5 % Vol. Non è una contraddizione rispetto all’attualità: si tratta di un livello minimo che può essere anche ampiamente superato. L’acidità totale minima del vino è stabilita nel 4,5‰.
Il lavoro sulle Menzioni Geografiche Aggiuntive
La novità più importante introdotta dai due decreti citati è stata l’inserimento in Disciplinare delle Menzioni Geografiche Aggiuntive, quelle siglate con l’acronimo MeGA. Il lavoro condotto negli anni Novanta del Novecento dai Comuni della zona di origine e dal Consorzio Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani ha portato alla delimitazione di 72 Menzioni. Di queste, 66 sono inserite in Disciplinare, mentre 6 sono rimaste congelate, semplicemente perché nessun produttore le ha mai rivendicate e utilizzate.
A distanza di più di vent’anni dalla loro introduzione in Disciplinare e, quindi, del loro impiego ufficiale nella designazione del Barbaresco, l’utilizzazione delle MeGA da parte dei produttori e la loro domanda dal mercato sono cresciute in modo significativo: nel 2018 il volume del Barbaresco accompagnato dalle MeGA ha rappresentato il 53% del totale, mentre quello del Barbaresco senza Menzione si è attestato al 47% della produzione rivendicata.
La domanda di Barbaresco accompagnato da MeGA è in costante crescita e questo sta ponendo al settore una domanda di merito a cui si dovranno dare risposte: “il connotato dell’origine più precisa insito nella MeGA sarà ancora sufficiente a giustificarne l’esistenza oppure bisognerà per ciascuna di esse rintracciare a livello normativo e produttivo una qualità maggiore e facilmente percepibile rispetto al Barbaresco senza tali specificazioni?”
Al riguardo, oggi nel settore esistono due filosofie di pensiero: una interpretata da chi vede nel Barbaresco MeGA un prodotto di qualità più elevata e tangibile rispetto al Barbaresco che potremmo definire “Classico”; l’altra considera il Barbaresco MeGA solo come una specificazione più precisa dell’origine.
Pur in presenza di un dibattito intenso, oggi non vi sono certezze rispetto a strumenti e parametri su cui lavorare per rendere percepibile la maggiore qualità del Barbaresco MeGA rispetto a quello “Classico”. C’è chi parla di riduzioni di resa per ettaro, chi di un livello più elevato dei parametri chimici come alcool e acidità, chi di una maturazione più prolungata. Una soluzione potrebbe essere quella di produrre il Barbaresco MeGA solo nelle grandi annate.
Di definitivo, al momento, non c’è nulla.
Il settore sta ragionando anche se sia utile “congelare” – insieme alle sei che lo sono già – le MeGA che non sono più state rivendicate dai produttori. Tuttavia, si tratta di casi molto sporadici, visto che in base ai dati forniti dal Consorzio nella vendemmia 2018 il 95% delle MeGA risultano utilizzate nella designazione del Barbaresco.
Il confronto continua e, certamente, porterà presto importanti novità.