Aglianico, figlio del vulcano

La nota più sorprendente è la diffusa bevibilità

Giancarlo Montaldo e Teresa E. Baccini Dicembre 2016
Aglianico, figlio del vulcano

Aglianico del Vulture è un nome a doppia valenza: da un lato richiama il vitigno principale che si coltiva in questa zona; dall’altro è il nome del vino che qui si produce. Il monte Vulture è il suo riferimento essenziale.

Siamo tornati sulle colline dell’Aglianico del Vulture dopo alcuni anni. Abbiamo trovato questa realtà come nel recente passato: ampia, maestosa, affascinante. Il Vulture è sempre là, possente e protettivo, i suoi fianchi per un buon tratto sono brulli, poi ricoperti da boschi di castagni, cerri e faggi. Quindi, iniziano le vigne, a contrappuntare gli spazi più vocati e in mezzo a loro gli uliveti. Ed è qui che l’uomo comincia costruire il suo futuro. Ma vi abbiamo anche trovato qualcosa di nuovo e di estraneo, decine e decine di pale eoliche destinate a creare energia pulita, ma che per ora rovinano un paesaggio che meriterebbe più attenzione. Siamo nel nord della Basilicata, dove la provincia di Potenza s’incunea tra quelle di Foggia a Est e di Avellino a Ovest. Qui, l’intero territorio di 14 paesi (Barile, Rionero in Vulture, Rapolla, Ripacandida, Ginestra, Maschito, Forenza, Acerenza, Melfi, Venosa, Lavello, Palazzo San Gervasio, Banzi e Genzano di Lucania) e parte di quello di Atella formano la zona di origine dell’Aglianico del Vulture, vino Doc dal 1971 e anche Docg come Superiore dal 2010. Sul confine campano il Monte Vulture, un vulcano spento alto 1327 metri, domina il paesaggio: alle sue pendici, i comuni di Barile, Rionero, Rapolla, Atella, Ripacandida e in parte Melfi manifestano chiara l’origine vulcanica del suolo, conseguenza di antiche eruzioni che hanno depositato detriti lavici sulle colline la cui altitudine va dai 500 metri di Atella fino a superare i 600 metri a Barile e Rionero. Proseguendo in direzione Est, verso la Puglia, le colline tendono a degradare fino ai 313 metri di Lavello e ai 415 di Venosa, per tornare a salire nella fascia più meridionale fino a superare gli 800 metri di Forenza.

Il profilo del monte Vulture

IL MONTE VULTURE AL DI SOPRA DI TUTTO

Dal punto di vista geologico, la zona risale all’Era Quaternaria (poco meno di 2 milioni di anni fa). Il Vulture è al centro di un vasto comprensorio di colline e di valli, sulle quali si sono stratificati i detriti eruttivi, quelli alluvionali e le risultanze delle antiche acque marine. Le manifestazioni eruttive hanno modellato il territorio, compresi laghi, fiumi e sorgenti di acqua, che hanno la massima espressione nei laghi di Monticchio. I terreni vulcanici intorno al Vulture hanno colore bruno, sono poveri di scheletro, argilla e carbonati, sono sciolti, hanno reazione neutra o leggermente acida e sono ben dotati dei principali elementi nutritivi per le piante. Nell’area ai piedi del Vulture si individuano varie differenze pedologiche: i terreni di origine vulcanica sono presenti in maniera decisa nei comuni di Barile, Rapolla e Rionero in Vulture, mentre la loro incidenza sulla globalità del territorio è minore a Ginestra, Melfi e Ripacandida. Melfi accompagna i terreni vulcanici con altri argillosi, argilloso-limosi ed argilloso-sabbiosi; Ripacandida li integra con terreni in prevalenza sabbiosi o sabbioso-limosi, mentre Ginestra li mescola con quelli argillosi e argilloso-limosi e con quelli sabbiosi o sabbioso-limosi. Ma l’influenza del Vulture non è limitata ai paesi citati. Ce ne sono ancora altri come Atella, Maschito, Venosa, Ravo del Monte e San Fele, che nel passato non sempre hanno rivelato forti legami con l’Aglianico. Alcuni di essi (Ravo del Monte e San Fele) non fanno parte della zona di produzione delle uve dell’Aglianico del Vulture. Poi, spicca il caso di Atella, dove i terreni sono in gran parte vulcanici, accompagnati anche da altri argillosi ed argilloso-limosi, ma anche in questo caso l’attenzione alla vite e al vino è recente. Dove il vulcano ha portato minore influenza, in particolare nella fascia più orientale e meridionale della zona, prevalgono i terreni con i classici sedimenti alluvionali, in particolare argilla, calcare, limo e sabbia.

Il terreno vulcanico della zona è detto “pozzolana” ed è costituito da una fine cenere vulcanica, usata per la prima volta dai Romani per produrre l’opus coementicium, un cemento a pronta presa (per quei tempi) in grado di fare presa anche sott’acqua e di durare straordinariamente a lungo.
Il terreno lavico è estremamente adatto alla coltivazione della vite e dell’ulivo. In particolare, è interessante la capacità di questo terreno di trattenere e mantenere nel tempo le riserve di acqua, contribuendo a limitare i fenomeni di scarsità idrica propri degli ambienti collinari e alto-collinari e delle stagioni estive di questi anni.

IL VITIGNO AGLIANICO DEL VULTURE

Venosa ha dato i natali al grande poeta latino Orazio, quello del “nunc est bibendum”; è probabile che sia stato il primo cantore del Vulture e dei suoi vini. Ma l’Aglianico del Vulture ha senz’altro derivazioni più antiche. Lo dice già l’origine greca del suo nome: alcuni lo fanno derivare dal nome dell’antica città di Elea, sulla costa lucana del Tirreno, altri lo legano a navigatori greci (Hellenici) sbarcati sulle coste joniche della Lucania prima che iniziasse la guerra di Troia. Da Ellenica o Ellanico ad Aglianico il passo è stato breve. Vitigno a frutto nero, l’Aglianico è una delle più interessanti varietà di vite dell’Italia meridionale al punto che in gergo lo chiamano il “Nebbiolo del Sud”. Come il prestigioso vitigno piemontese, l’Aglianico è precoce a germogliare e fiorire e tardivo nella maturazione dei grappoli (ottobre inoltrato) e nella caduta delle foglie. La foglia pentalobata e il grappolo spesso compatto hanno grandezza media; gli acini sono sferoidali, color blu, con intensa pruina. I sistemi d’impianto sono quelli tradizionalmente in uso nella viticoltura meridionale, l’alberello, la spalliera bassa ed il cordone speronato; molto caratteristico è il sistema “a capanno”, con la vite aggrappata a un sistema di canne poste attorno a essa a forma di cono, ormai in disuso.

ALCUNI SPUNTI STORICI

Molte sono le citazioni del vitigno, della zona e del vino nella letteratura vitivinicola del passato. Il Vulture è sempre stato al centro dell’attenzione. Sante Lancerio, bottigliere di papa Paolo III Farnese cita l’Aglianico nel 1549 nel trattato “I vini d’Italia giudicati da papa Paolo Farnese”. E così fa Andrea Bacci, medico di papa Sisto V, autore di uno dei più importanti libri enologici del mondo antico (Rinascimento), il De naturalis vinorum historia, dove riferisce del sistema di coltivazione dell’Aglianico “Ivi le viti si maritano a lunghi ordini di olmi e di pioppi” e parla delle uve “non tanto nere, piene di succo rubicondo e d’una sostanza mediocremente grassa, densa, pingue, e alcolico quando le vendemmie corrono asciutte”.
Giusué Carducci lo definiva “vino grandioso” e Ferdinando di Borbone, penultimo re delle Due Sicilie, veniva personalmente a Barile per approvvigionarsi di questo vino.

Nel 1931 il piemontesissimo senatore Arturo Marescalchi, scrivendo dell’Aglianico del Vulture, ne tesse le lodi e asserisce che “i migliori si trovano a Barile, ma ottimi sono anche quelli di Rionero.” Conclude lamentandosi che non si faccia nulla per valorizzare un vino così nobile.

Concludiamo citando la “Grande Enciclopedia del Vino” – Editoriale Domus (1981), dove si ricorda che “l’Aglianico cresceva soprattutto sulle pendici di un vulcano: il monte Vulture… La vite di questa regione, quindi, è in confidenza con lava e lapilli e forse è la pianta di questa specie più antica d’Italia. Secondo Orazio, qui la vite è cresciuta da sempre e questa è conferma del fatto che la sua presenza è antica e si perdeva, anche nella valutazione dei Romani, nella notte dei tempi. Nelle caratteristiche organolettiche entrano due elementi: la lava e la quota, che è relativamente alta, essendo la media dell’altitudine attorno ai 700 metri.”

Vigneti di Aglianico a Barile

AGLIANICO NEW AGE

Oggi gli epigoni dell’Aglianico del Vulture sono poco più di un pugno di produttori, giovani, ma non tanto da rischiare l’inesperienza. Hanno cominciato – qualcuno ricominciato, nell’azienda di famiglia – a fare vino dopo il duemila, ma con una testa, una filosofia, diversa dalla generazione di produttori che li hanno preceduti; quelli, per intenderci, che magari hanno portato l’Aglianico del Vulture sulle guide e sulla bocca di tutti una ventina di anni fa, ma che in certi casi oggi si sono già disfatti delle loro aziende, benché blasonate. Ma il mondo del Vulture è fatto così, ad ogni generazione segna il cambio della guardia, cambia un po’ la pelle e ad ogni cambio rinasce dalle sue ceneri. Il mondo del Vulture è un’Araba Fenice che, ogni volta che rinasce, vola di tanto così più in alto. Questa volta non abbiamo dovuto andarli a scovare nelle loro cantine, sparse tra Melfi e Forenza, Rionero, Barile o Venosa; si sono presentati tutti insieme con le loro bottiglie – annata a scelta del produttore – “quella che meglio ti rappresenta” era la parola d’ordine. Ci hanno portato Aglianico del Vulture dal 2013 al 2008. Tutti in cantina da Elena Fucci, la più determinata di tutti, con la sua premiatissima serie di Aglianico “Titolo”, a scrivere una pagina nuova su questo vino. Ne sentiremo parlare di queste cantine e di questi vini: Carbone, San Martino, Mastrodomenico, Grifalco, Musso Carmelitano, Madonna delle Grazie, Bisceglia, Martino e anche la Viticoltori Associati di Barile. Li abbiamo assaggiati con l’attenzione rivolta più a cercare le somiglianze che le differenze, proprio per capire dove sta andando l’Aglianico del Vulture di nuova generazione. E dobbiamo confessare che è un bell’andare.

La prima impressione rassicurante è la precisione della tipologia, pur nelle differenze individuali. Come se l’Aglianico, vitigno solido e identitario, finalmente se ne andasse a briglia sciolta su per i versanti che accarezzano i piedi del vulcano spento: senza il morso di bellettature modaiole, affonda liberamente nella terra e ne esprime gioiosamente il carattere. La prima novità è proprio questa. Questi vini marcano il territorio, se ne fanno forti, a costo di sacrificare la potenza pura che il vitigno sa esprimere. Così, come un attore consumato, l’Aglianico tira fuori da una parte mineralità cristalline, dall’altra inebrianti sentori di erbe selvatiche, qui accenna sofisticato al tabacco e all’incenso, là si fa vinoso e pieno di frutto. Coniugando di volta in volta spezie dolci e cacao, effetti balsamici e retrogusti agrumati. Ma la nota più sorprendente è la diffusa bevibilità di questi vini che sanno dosare tannicità mai prepotenti su morbidezze corpose. Vini forse meno muscolari e piacioni di un tempo, ma più scattanti e originali, stimolanti e sapidi. Stanno esplorando l’Aglianico, questi produttori e lo fanno a modo loro, senza guardarsi indietro. Eppure la definizione di pugno di ferro in guanto di velluto per quasi tutti questi vini vale ancora. “Facciamo il vino che ci piace” dicono “facciamo il vino prima di tutto per noi e lo vendiamo quando è pronto”. La verità è che piace anche agli altri. Ed è piaciuto anche a noi. Di cercare di mediare con la vecchia guardia non se ne parla. “Dobbiamo andare avanti lo stesso” butta lì Elena Fucci “essere sereni, partecipare insieme, partecipare tutti”

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