Ci ricorda un noto adagio che, chi lascia la strada vecchia per la nuova, sa cosa lascia, ma non sa quel che trova. Al vignaiolo capita talvolta di doversi reinventare: una nuova varietà in coltivazione, un nuovo vino, i cambiamenti nella distribuzione.
L’agricoltura, anche quella a conduzione familiare, è una forma di impresa. Si coltivano vigneti per vendere vini, quindi è naturale cercare di interpretare l’andamento dei mercati e tentare di seguirli.
In una bottiglia di vino c’è il “saper fare” che affonda le sue radici nel passato e nella tradizione. La stessa bottiglia contiene, però, anche gli sforzi fatti dal vignaiolo per produrre vini che seguano la continua evoluzione del gusto dei mercati. Come mantenere in equilibrio le tradizioni con ciò che si immagina sia gradito al palato del consumatore?
Sul fronte italiano abbiamo già assistito alle oscillazioni di alcune tendenze. Una di queste è stata il massiccio utilizzo delle barriques per l’invecchiamento. Guidati dal gusto nord-americano, molti produttori arrivarono addirittura ad eccedere nella tostatura delle botti. Per ricaduta, alcuni consumatori giovani e meno esperti consideravano i vini “barricati” come i migliori vini rossi possibili. Ma il gusto medio, poco per volta, si evolve. Dopo gli eccessi di legno degli anni Novanta, ci sono voluti decenni per trovare un equilibrio. Trent’anni dopo, le barriques sono ancora un buon metodo di affinamento, di certo non l’unico. Un’altra evoluzione del gusto italiano ha riguardato il sempre più progressivo apprezzamento dei vini bianchi e rosati. La delicatezza dei profumi e la loro naturale freschezza ne hanno sancito il successo nei consumi italiani, con la complicità del sempre maggior numero di “apericene” servite ogni sera nel Bel Paese.
Ciascuno di questi passaggi evolutivi del gusto ha comportato scelte coraggiose per i produttori, così come per gli enotecari e i ristoratori.
Il coraggio di crescere
Negli ultimi anni abbiamo assistito, con piacere, ai tavoli di discussione e alla definitiva autorizzazione di nuove Doc e Docg. Esse affondano le loro radici nella unicità di un territorio, spesso combinata al vitigno che meglio si è adattato alla coltivazione in quell’area. Come reagiscono i mercati alle scelte coraggiose di alcuni produttori?
Per rimanere in zona, analizziamo il caso della Docg che identifica il Metodo Classico piemontese. Sono ormai trascorsi 25 anni da che i primi ettari di vigneto sperimentale dettero il loro frutto da trasformare in spumante. Lo scorso anno le bottiglie prodotte di Alta Langa Docg furono 1.300.000 e i consumatori del Nord Ovest italiano hanno oggi consapevolezza dell’alto valore qualitativo di questo nobile vino. Coraggio e orgoglio servono ora ai produttori che si stanno cimentando nella produzione di spumanti da vitigno Cortese. In futuro la strada, tutta piemontese, per lo spumante ottenuto con Metodo Martinotti potrà chiamarsi Marengo Doc.
I mercati, anche quelli internazionali, stanno premiando le scelte di legare le denominazioni alla mappa geografica, al territorio. È stato così per la sottozona della Barbera d’Asti Superiore, diventata poi Nizza Docg. Inizialmente pareva una scelta audace, ma i produttori di quella zona erano consapevoli della marcata identità dei vini provenienti da precisi crinali, esposizioni e terreni. Da sempre li tenevano in botti separate e spuntavano per essi prezzi più elevati. Una superiorità qualitativa nota e circoscrivibile ad una zona.
L’orgoglio di “staccarsi”
Quelli fin qui analizzati sono casi di lavoro intenso per scelte coraggiose, avviate con passione. Che dire però di quei produttori che fanno fatica a ritrovarsi nella propria denominazione di appartenenza? Che fare quando la denominazione “scivola” nel generale appiattimento della qualità media, a malapena sufficiente per soddisfare gli enormi volumi richiesti dalla grande distribuzione?
In piena vendemmia, suscitarono molte polemiche le parole di Innocenzo Nardi, presidente del Consorzio del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg. Egli rivendicava le grosse differenze tra il 18% delle bottiglie di Prosecco provenienti da Asolo e Conegliano Valdobbiadene e il restante 82% delle bottiglie di Prosecco provenienti dall’enorme pianura che parte da Vicenza e finisce a Trieste. L’intervento di Nardi sottolineava come il nome del vino, Prosecco, non riesca da solo a comunicare la differenza organolettica tra spumanti che sono diversi tra loro. I primi si ottengono dai vigneti della viticoltura eroica delle “rive”, gli altri si ottengono da terreni diversi in composizione e con coltivazione completamente meccanizzata. I costi di produzione sono differenti, così come i prezzi al consumatore. Per un produttore di Valdobbiadene, quindi, la scelta coraggiosa di non rivendicare la parola Prosecco (una scelta consentita dal disciplinare) potrebbe essere un segnale di dissociazione da una denominazione che inseguendo i grossi volumi, rischia ora un appiattimento della qualità media.
Intanto, dalla vendemmia 2019, il Chianti Docg ha innalzato il tenore massimo di zuccheri residui. Il presidente del Consorzio Vino Chianti dichiarò che la novità avrebbe allineato il vino “ai gusti dei consumatori, che inevitabilmente si modificano nel tempo”. La possibilità di proporre vini leggermente abboccati potrebbe portare ad un maggior apprezzamento del famoso rosso toscano sui mercati asiatici e americani. Un’altra denominazione che rischia di snaturarsi, per inseguire la produzione dei milioni di bottiglie richieste dalle catene distributive estere? Sempre più produttori che coltivano nelle zone di Montespertoli, Rufìna o Montalbano trovano il modo di riscattare la propria identità, caratterizzata da una superiorità qualitativa, rivendicando la propria menzione geografica in etichetta.
La necessità di comunicare
Scelte coraggiose sono anche quelle dei produttori di Moscato d’Asti Docg che, avendone i requisiti, potranno scegliere di rivendicare la neonata denominazione Canelli Docg. La parola “moscato” è una di quelle parole che “tira”, soprattutto negli Stati Uniti e in Corea. Scegliere di produrre il nuovo Canelli Docg significa abbandonare la strada conosciuta per un nuovo percorso, caratterizzato da un disciplinare più rigoroso. Un coraggio sostenuto dalla certezza di esprimere nel bicchiere la propria vocazione all’eccellenza.
Il mercato corre, in alcuni paesi anche velocissimo. La cantina e il vigneto continueranno a fare aggiustamenti per stare al passo del gusto medio, che continuamente si evolve. Oggi, il testimone della qualità riconosciuta sembra essere passato alle denominazioni che si appoggiano ad un territorio. In questi anni beviamo con piacere sempre più vini dove sono il vitigno ed il terroir ad esprimersi, piuttosto che la mano dell’enologo. Le scelte strategiche, in particolare quelle coraggiose, non porteranno a incredibili incrementi delle vendite. La comunicazione e la promozione garantiranno però le corrette marginalità, soprattutto nelle economie familiari delle piccole e medie cantine. Di nuovo, una questione di coraggio: unirsi ai colleghi, condividere le risorse, per far conoscere la propria identità.
Il caso del Canelli Docg
Intervista a Gianmario Cerutti, Presidente dell’Associazione Produttori Moscato Canelli
Presidente Cerutti, ci racconti come avete lavorato per la mappatura della Docg Canelli.
” Il nuovo disciplinare, al di là dei tecnicismi di altimetrie e esposizioni, inquadra le aree in cui si producono eccellenti vini Moscato. Negli anni scorsi assaggiavamo alla cieca le produzioni di Moscato d’Asti Docg più rappresentative. Successivamente le relazioni tecniche, quelle storiche e le indagini geologiche ci confermarono quello che empiricamente avevamo identificato negli assaggi: alcune micro aree hanno una identità ben precisa, distintiva. La mappatura del Canelli Docg utilizza fiumi, crinali e strade di fondovalle per delimitare questa area dalle caratteristiche omogenee di terreni e micro clima”.
Presidente, i nostri lettori leggeranno un articolo che riguarda le scelte coraggiose dei produttori. La strada del Canelli Docg richiede coraggio?
” I produttori di Canelli Docg si sono dati una possibilità in più, quella di crescere autonomamente, nella rivendicazione di una unicità che si può facilmente ritrovare nel bicchiere. C’è effettivamente un elemento di scommessa, quello di costruire un percorso diverso da quello seguito finora. Dovranno esserci momenti di informazione e di comunicazione, affinché l’identità del nostro Moscato possa essere conosciuta ed apprezzata. Crediamo che i consumatori ci riconosceranno questo percorso, fatto di territorio e storicità”.